Discorso alla Città 2023, il Vescovo si è soffermato sul tema «…in una città chiamata Nazareth (Mt 2,23): la profezia del quotidiano». Nella Cattedrale di San Prisco i rappresentanti delle istituzioni locali, le autorità militari, i rappresentanti delle associazioni e della comunità diocesana. Il Discorso apre il novenario in onore di san Prisco, patrono della Diocesi e della Città di Nocera Inferiore

 

Discorso alla Città 2023

…in una città chiamata Nazareth (Mt 2,23): la profezia del quotidiano

 

 

Questi trent’anni*

Si ritirò nella regione della Galilea e venne ad abitare la città chiamata Nazareth.

Poi Nazareth. Anni uguali a colpi di remo battuti sugli scalmi d’una barca. Una casa di poveri, con la sua fame e il suo pane ogni giorno, e per dormire la notte, e per la sete il pozzo; e per la tristezza, la gioia, gli affetti, per tutto questo il silenzio.

A una cert’ora stanno seduti tutti e tre attorno a un tavolo, masticano, e il vino scende a sorsate nelle loro gole. Con l’ultimo boccone i due uomini si alzano e riprendono gli arnesi fino al durare della luce. Poi le forme di tre corpi sotto le coltri, nel sonno, il sollevarsi dei petti.

Non capisco. Capisco l’incarnazione, capisco la guarigione del cieco, la risurrezione di Lazzaro e tutti i miracoli, capisco lo schiaffo del soldato, la crocifissione, la morte, la Pasqua, capisco lui nell’ostia: ma non capisco questi trent’anni.

Non capisco che sia stato, in una frotta di fanciulli scalmanati a rincorrersi dietro i muri di Nazareth, questo e non quell’altro; che rincasasse frettoloso sotto le prime gocce dell’acquazzone quanto porte e finestre si chiudono con rumore.

Non capisco i capelli che gli crescono, la pialla che gli sfugge di mano, la spina che può pungerlo, il passante che può urtarlo o chiedergli la via. Non capisco che ogni giorno dalla sua casa, come da ogni altra, uscisse una palata di rifiuti, dove biancheggiavano gusci d’uovo che aveva bevuto o forse una benda sudicia con suo sangue schizzato maneggiando la sega.

Facile riconoscerlo dopo: quando non avrà una pietra dove posare il capo, quando si muove tra le moltitudini e ogni suo passo avvera una profezia o parla ai discepoli e ogni sua parola la rubano i Vangeli. Ma qui a Nazareth, mentre si corica ogni sera in un comune letto, mentre cammina dietro le oscure faccende di ogni giorno e scambia parole che non sono di vita eterna? Ma questi trent’anni?

Ho avuto trent’anni, ho vissuto anch’io quanto lui nella casa, ho contato lo stesso numero d’ore e sono passato per questi valichi che lui ha conosciuto – infanzia, adolescenza, pubertà, gioventù. Sono anni inenarrabili, di donne e di paesi, anni fermentati come un grappolo al sole. Cosa ne ha fatto di questi trent’anni?

Nel libro non ci svela nulla (… e Gesù cresceva, dice Luca). Ha voluto imporci anche questa prova: di credere che il Figlio dell’uomo sia stato nient’altro che un giovane casalingo.

 

Nazareno e Cristo*

 

… affinché si compisse quello che era stato detto per mezzo dei profeti, che sarebbe stato chiamato Nazareno.

Invece lo chiamo Nazareno e il Vangelo torna a persuadermi. Anche i trent’anni in quell’oscura borgata sono una promessa mantenuta ai profeti, un connotato di più per riconoscerlo.

Questo nome sonore come un cembalo il Padre lo mormorava da secoli nelle sue confidenze all’orecchio di Elia e di Daniele: e prima che il mondo fosse, Nazareth era già edificata là nel gran bianco degli angeli perché lui potesse chiamarsi Nazareno.

Nazareno è il nome dell’incarnazione paziente e opaca come Cristo è il nome dell’incarnazione eroica e folgorante. Egli ha voluto essere uomo nelle ore trionfali e tormentose, nello sventolio delle palme, nei singhiozzi dell’orto, fra gli urli del crucifige; ma più a lungo ha voluto abitare nelle ore comuni, per esserci compagno anche nella mediocrità dei giorni feriali; perché si sappia che in ogni momento solitario e insignificante, in ogni occupazione grama e svogliata, nei ripostigli del nostro tempo più grigio è passato anche lui, ha amato il coltello e la lucerna, la seggiola e la mosca, l’estate e l’inverno.

Allora quando nella stanza raccolgo a sera la mia stanchezza sperduta fra centomila stanchezze della città, non lo chiamo Cristo, lo chiamo Nazareno: che vuol dire Dio d’una città qualunque, d’una casa qualunque, d’un’ora qualunque, di queste mani che hanno lavorato un altro giorno.

*Da Volete andarvene anche voi? Una vita di Cristo di Luigi Santucci

 

Signore e Signori,

Distinte Autorità,

Chiesa Pellegrina in Nocera Inferiore-Sarno,

torna ancora una volta, in preparazione alla festa del Patrono della Diocesi San Prisco, il Discorso che il Vescovo rivolge alla Città, la Terra dell’Agro, per allargare l’intelligenza e il cuore e donare una parola profetica che possa accompagnare il cammino del nostro popolo.

Come sempre, ho chiesto l’ausilio orante alle tante mani alzate che si elevano verso il cielo, per implorare pace e sicurezza per le nostre città.

Il tema scelto … in una città chiamata Nazareth (Mt 2,23) vuole aiutarci a cogliere le risorse e la bellezza del quotidiano, dell’ordinario, del giorno per giorno, a cui sempre basta la sua pena (cfr Mt 6,34) e la sua gioia.

Entrando nel silenzio laborioso di Nazareth, facciamo l’elogio di tutti quegli uomini e quelle donne che, nel lavoro diuturno e non visto, con tenacia e passione, costruiscono e tengono insieme il tessuto connettivo delle nostre città e dei nostri paesi.

Se per un attimo si fermassero, si arresterebbe il mondo, mancherebbe il respiro alle nostre città.

Sono i profeti dell’ovvio, dell’ordinario; come ovvio e ordinario, quasi scontato, vi potrà apparire questo Discorso.

 

I trent’anni del Figlio di Dio, vissuti nel nascondimento di Nazareth, ci possono aiutare a comprendere i tempi e i luoghi del nostro appassionato servizio alla Città.

Quasi riscoprendo antichi borghi, sostiamo un attimo a Nazareth, dov’era cresciuto (Lc 4,16), per cui sarà chiamato Nazareno (Mt 2,23), liberandoci dal pensiero che da Nazareth non possa venire nulla di buono (cfr Gv 1,46).

Tra le pareti di Nazareth, Gesù con Maria e Giuseppe vive una stagione importante della sua vita, insegnandoci che la dignità non viene dai luoghi o dalle strutture, ma è la presenza della persona a renderli tali.

L’elogio del quotidiano – quotidie – ci porta nelle cucine dove le nostre mamme si impegnano per fare da mangiare; dove lavorano i papà; ci conduce nelle aule scolastiche, nelle botteghe, nelle fabbriche, nei campi, nelle officine, nelle corsie degli ospedali, nei cunicoli delle miniere, nei laboratori delle analisi, nelle aule dei tribunali, negli spazi del volontariato e della carità, nelle serre dei contadini e dei fiorai, sulle barche dei pescatori, nei bar, nei negozi, nei centri commerciali, nelle botteghe dei sarti e degli artigiani, nei laboratori dell’arte, nei luoghi della legalità e delle amministrazioni, nelle nostre parrocchie e case religiose, nelle università, dove si studia e si ricerca, anticipando il futuro.

Quanti luoghi del quotidiano dove la foresta che cresce non fa rumore, mentre noi siamo attratti dallo schianto di un albero che cade.

Questi luoghi, che non chiedono e non cercano palcoscenici, dove giorno per giorno si tesse la trama della vita che è fatta di piccole cose, di gesti insignificanti e ripetitivi, di azioni non quotate in Borsa, sono necessari perché senza questa stoffa, tessuta con fili di pazienza e sacrificio, diventerebbe estraneo alle nostre città il canto stesso della vita.

Questo lavoro, secondo lo stile di Nazareth, è la vera profezia del quotidiano, da incentivare, riconoscere e valorizzare a tutti i livelli, se vogliamo recuperare il senso civico di una Città che, per essere straordinaria, valorizza l’ordinario, l’usuale, l’ovvio, lo scontato, la riscoperta dell’essere cittadino, abitante di una civitas, ognuno impegnato a renderla più bella e quindi Città educante.

 

Lode, allora, ai tanti uomini e donne che non visti sono impegnati, non senza sacrificio, a rendere sempre più abitabili, umani, i nostri ambienti, paesi e città.

È per essi la bella immagine che raccolgo dal Libro dei Proverbi, un invito ad imitare più la formica che il pigro.

Va’ dalla formica, o pigro,
guarda le sue abitudini e diventa saggio.
Essa non ha né capo
né sorvegliante né padrone,
eppure d’estate si procura il vitto,
al tempo della mietitura accumula il cibo.
Fino a quando, pigro, te ne starai a dormire?
Quando ti scuoterai dal sonno?
Un po’ dormi, un po’ sonnecchi,
un po’ incroci le braccia per riposare,
e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo,
e l’indigenza, come se tu fossi un accattone
(Pr 6,6-11).

 

Lode a questo lavoro e lavorìo, che ha il timbro di una professionalità forse non certificata, ma non sempre capita e riconosciuta, senza la quale il mondo perderebbe il centro, il senso, l’anima e la sua parte più nobile.

Questi testimoni, martiri del quotidiano, possiedono una umanità da vendere, dei valori da condividere, dei sogni da raccontare, delle risorse umane e spirituali che, difficilmente, si riscontrano in altre professionalità riconosciute.

Questo popolo del quotidiano e del feriale ha una sua consistenza, un suo credo, una capacità di resilienza che può insegnare tanto ai tanti e, quando la loro storia si incrocia con la fede semplice, possiamo anche parlare quasi di santi della porta accanto, senza altarini e giorni nel calendario, ma concretamente impegnati nella costruzione della Civiltà dell’Amore.

Questo popolo di anonimi per noi – ma che hanno un nome e una storia ben conosciuti – non chiedono articoli sui giornali, like sui cellulari, non aspirano a palcoscenici; per essere non hanno bisogno di riconoscimenti mediatici, non spingono per passare davanti, non cercano amici per avere favori, non usano abiti di falsa modestia, ma sono sempre impeccabili, eleganti nella loro ordinarietà, perché sanno fare del feriale la vigilia di ogni festa.

 

Dove sono?

Chi sono?

Quanti sono?

 

Sono in mezzo a noi, e siamo anche noi, un popolo numeroso che nessuno può contare.

Di essi non parleranno e non parlano i libri di storia, né i quotidiani, tanto meno le riviste di gossip; non hanno tempo per affollare certe trasmissioni delle nostre televisioni dove si urla e si degrada l’uomo; non chiedono medaglie, ma come ogni uomo apprezzano un sorriso, una stretta di mano, uno sguardo complice, un grazie, sempre pronti a riprendere con nuova passione il proprio lavoro.

Tante volte, la loro onestà, schiettezza e semplicità danno quasi fastidio ad un mondo che educa solo all’apparenza, a chi continuamente si serve dell’altro per raggiungere i propri interessi, dicendo che va avanti chi froda e imbroglia, e quasi vengono messi all’angolo, scartati, tenuti a distanza; ma essi, con la coscienza in pace, dormono sonni tranquilli e, sereni, si svegliano presto per continuare a tessere la trama della speranza.

 

Interessante è anche conoscere il linguaggio di questo popolo di Nazareth, il popolo del quotidiano, che utilizza un dialetto e un lessico quasi aulico ed arcaico, che qualcuno definisce fuori moda e non più sul mercato.

Le loro parole, come quelle di Giuseppe di Nazareth, più fatte che dette, ricche di gestualità e fattualità, hanno l’accento e il sapore della tenacia, dell’impegno, della passione, della resistenza, del dovere, termini quasi scomparsi dai vocabolari di certe culture che educano all’applausometro, e riempiono le piazze solo per rivendicare una dittatura dei diritti, lasciando in ombra ogni dovere.

Essi, come Maria a Nazareth, conservano tutto nello scrigno del cuore, facendo dell’interiorità la città più abitabile e il rifugio sicuro.

 

Questo popolo, ordinariamente straordinario, anima delle nostre città, dei diversi centri, delle nostre autentiche comunità cristiane, parla con il cuore e al cuore, puntando all’essenziale, sempre attenti alla grammatica del vivere e del morire, fondamentali di ogni esistere.

Essi sono come il filo di un vestito. Esso tiene insieme i vari pezzi e nessuno lo vede se non il sarto che ce l’ha messo… perché se il filo si vede tutto è riuscito male (cfr Il filo, M. Delbrêl).

 

Nel mosaico della vita essi sono quei tasselli insignificanti, ma senza i quali l’opera d’arte non sarebbe completa e risulterebbe incomprensibile ai più, un semplice scarabocchio.

Sono come il collante, l’amore, la malta, che tiene insieme i vari pezzi.

Essi, giorno dopo giorno, lavorano per il bene comune che è anche il bene di ognuno, forse anche senza saperlo; si impegnano per la pace e, radicati in essa, potrebbero ripetere: «A noi la pace che verrà, operosa già dentro il cuore e sulla mano sta» (cfr C. Betocchi, La Pasqua dei poveri).

Sono uomini e donne che, con una sola rondine e con un fiore, già annunciano la primavera che verrà; con pochi ingredienti, preparano un pranzo per molta gente; sono tesori nascosti nel campo e semi che daranno frutto a suo tempo, sono i veri gioielli preziosi delle nostre città.

 

Come Padre e Pastore di questa Santa Chiesa pellegrina in Nocera Inferiore-Sarno, vorrei invitare questi professionisti dell’ordinario, questi novelli abitanti di Nazareth, questo popolo dietro le quinte, non ad una Fiera della vanità, ma ad un Circolo della riconoscenza per ringraziarli, incoraggiarli, sostenerli e, baciando le loro mani, benedirli.

E vorrei regalare loro l’icona biblica della donna forte (Pr 31,10-31) affinché, continuando ad abitare con il cuore a Nazareth e con Nazareth nel cuore, ognuno ed ognuna riconoscendosi in quel profilo si adoperi, attraverso le opere e i giorni, per rendere un servizio responsabile, gioioso e non intermittente, alla crescita armonica della nostra Città.

Una donna forte chi potrà trovarla?
superiore alle perle è il suo valore.
In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
Gli dà felicità e non dispiacere
per tutti i giorni della sua vita.
Si procura lana e lino
e li lavora volentieri con le mani. 

È simile alle navi di un mercante,
fa venire da lontano le provviste.
Si alza quando è ancora notte,
distribuisce il cibo alla sua famiglia
e dà ordini alle sue domestiche. 

Pensa a un campo e lo acquista
e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
Si cinge forte i fianchi
e rafforza le sue braccia.
È soddisfatta, perché i suoi affari vanno bene;
neppure di notte si spegne la sua lampada.
Stende la sua mano alla conocchia
e le sue dita tengono il fuso.
Apre le sue palme al misero,
stende la mano al povero.
Non teme la neve per la sua famiglia,
perché tutti i suoi familiari hanno doppio vestito.

Si è procurata delle coperte,
di lino e di porpora sono le sue vesti.
Suo marito è stimato alle porte della città,
quando siede in giudizio con gli anziani del luogo.
Confeziona tuniche e le vende
e fornisce cinture al mercante.
Forza e decoro sono il suo vestito
e fiduciosa va incontro all’avvenire.
Apre la bocca con saggezza
e la sua lingua ha solo insegnamenti di bontà.
Sorveglia l’andamento della sua casa
e non mangia il pane della pigrizia.
Sorgono i suoi figli e ne esaltano le doti,
suo marito ne tesse l’elogio:
“Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti,
ma tu le hai superate tutte!”.
Illusorio è il fascino e fugace la bellezza,
ma la donna che teme Dio è da lodare.
Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani
e le sue opere la lodino alle porte della città
(Pr 31,10-31).

 

Vi benedico

+ Giuseppe Giudice, Vescovo

 

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