Il Filo delle Fede, i Fili dell’Arte.
(dal 31 marzo al 14 maggio 2012)

English version

“E’ proprio dall’unione, vorrei dire dalla sinfonia, dalla perfetta armonia di verità e carità, che emana l’autentica bellezza, capace di suscitare ammirazione, meraviglia e gioia vera nel cuore  degli uomini.   Con la ricchezza della vostra genialità, del vostro slancio creativo siate sempre, con coraggio, cercatori della verità e testimoni della carità. Con la loro bellezza, le opere d’arte suscitino nello sguardo e nel cuore di chi le ammira il desiderio e il bisogno di rendere bella e vera l’esistenza”.

(Benedetto XVI agli Artisti)

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PRESENTAZIONE DEL PROGETTO

Il filo della fede, i fili dell'arteE’ la prima volta che il nostro museo diocesano, realizzato appena qualche anno fa, è già sul fronte per l’organizzazione di una Mostra di arte contemporanea.  E’ indubbiamente un’esperienza nuova e nello stesso tempo esaltante, nel senso che la Chiesa, aperta alle istanze ed al progresso dell’era moderna, si apre all’arte in maniera nuova.

Forse siamo da secoli abituati a vedere un connubio standardizzato tra  religione ed arte (intendendo quest’ultima come arte sacra). Del resto la Storia ci ha educati ad un linguaggio talmente classico, direi rinascimentale, che non sono pochi quelli che si ostinano in una pervicace chiusura al nuovo ed al moderno.

Il linguaggio oggi è tecnologico, anche quello della comunicazione lo è e l’arte, massima espressione della intercomunicazione globale, non può essere diversa. Oltre ogni schema linguistico ed ogni ideogramma, non necessita di segni particolari, ma  opera il trasnfert tout court sullo spettatore. L’arte, come la gioia della festa o il dolore di un lutto, parla una lingua universale.

E’ il nuovo miracolo della Pentecoste che, superando l’antica confusione di Babele, vuole dare all’umanità un sogno nuovo nel segno dell’unità e della restauratio. Anche per l’arte moderna.

Per noi è stata un specie di sfida e di scontro, direi di contestazione, per aprire l’antico chiostro e le sale del museo all’esposizione di artisti decisamente “nuovi”.

Ma si sa, il nuovo esige l’antico, come la chioma le radici, come la testa i piedi, come il fiore lo stelo: in un continuum che trova la sua significazione in un tema che, provvidenzialmente, ci vede congiunti e legati (non è una metafora) a doppio filo.

E parliamo del filo della fede e dei fili dell’arte.

Provvidenzialmente il tema dell’anno in corso, che trasversalmente interessa ed interagisce in tutte le operazioni e progettazioni pastorali, è proprio il gomitolo della fede. Snodando il quale potremo ritrovare le radici della nostra tradizione, proprio quelle radici cristiane che una certa mentalità laicistica vuole ostinatamente obliterare.

Ma lo aveva detto anche lo storico Benedetto Croce: noi occidentali, ed europei in particolare, non possiamo non dirci cristiani. Basta guardarsi attorno, girare per le nostre città, visitare i monumenti più significativi della nostra civiltà e ri-trovare il segno cristiano.

Se Tertulliano poteva scrivere ai suoi tempi “Hesterni sumus” (siamo nati appena ieri), oggi  non possiamo affermarlo, dopo una implantatio cristiana di duemila anni, delizia per chi crede e croce per chi non crede, dell’uomo di ieri e di oggi.

Novello filo di Arianna che, attraverso il nuovo Teseo, Cristo, sconfiggendo il Minotauro (il male con tutte le sue diramazioni) ridona la libertà e la vita all’umanità.

Ri- cominciamo: cioè riprendiamo la nostra dignità che, nel rispetto ecumenico di ogni scelta di pensiero e di azione, mira unicamente al bonum del soggetto e della comunità: quanto, parallelamente, ritroviamo nelle opere dei giovani artisti che sul filo, da quello fisico a quello metafisico, giocano le loro chances di rinnovamento e di rinascita.

Grazie allora all’intuizione ed alla decisa volontà di affrontare questo moderno torneo, per ridare al visitatore un percorso che, non più labirinto insidioso, si scoprirà  irenico e solare, come poteva essere l’uomo alla sua originalità paradisiaca.

Ri-percorriamo dunque, con la consapevolezza dell’adulto, ma con la limpidezza di sguardo di un bambino, questo iter intrigante e fascinoso che  ci porterà nel mondo dell’arte ed in quello della fede.

Attraverso non solo il confronto e la re-interpretazione  di un soggetto antico (e questa  sarà una vera sorpresa), ma rigenerati, come neofiti nelle acque lustrali dell’Arte, per ri-credere e ri-dare un nuovo senso  alla nostra storia ed alla nostra vita.

Il progetto è ambizioso, perché la Mostra ha una valenza internazionale, non solo per la internazionalità dei suoi artisti (Slovacchia, Francia, Italia) ma per il tour internazionale che toccherà le capitali di Parigi, Berlino, Bruxelles e la nostra “provinciale “Nocera, erede storica dell’antica Nuceria  da cui era dipendeva  la stessa Pompei.

Gratificati ed orgogliosi  per la scelta del nostro Museo nocerino, quale location dell’unica statio italiana, leghiamo  alla certezza della riuscita il filo della Fede ed i fili dell’Arte.

Don Natale Gentile
Direttore del Museo Diocesano San Prisco

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PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA

Il Filo delle Fede, i Fili dell’Arte.
Cinque artisti, Sarah Barthélémy Sibi, Michal Korman, Joelle Bondil, Emmanuelle Leblanc, Gennaro Scarpetta, cinque personalità differenti, cinque modi di interpretare il tema proposto, suggerito nell’ambito del progetto Leonardo, nato dalla azione sinergica tra l’associazione francese “Kill oh What” ed il Museo Diocesano di San Prisco di Nocera Inferiore. Il Filo della Fede come leit motiv di un’esposizione che cerca di indagare le peculiarità dell’arte contemporanea al bivio tra la prassi del fare ed il lirismo dell’interiorità. Sarah lo fa puntando sulla fanìa luministica, seguendo la suggestione del luogo: “Hélices” ovvero le proiezioni ed i riverberi di gotica memoria che esaltavano la ieraticità delle cattedrali medievali, stabilendo il connubio indissolubile tra la divinitas cristiana e l’humanitas tutta terrena. Il riverbero che i fasci di luce producono, rimandano e rinsaldano il connubio cristiano, riproposto stavolta in un chiostro, quello barocco del grandioso edificio nucerinus, in modo che il tema contemplativo, possa rinnovarsi, secondo l’interpreazione della Barthélémy oltre la spiritualità dei templi della cristianità. Le “Hélices” di Sarah Barthélémy Sibi divengono allora quei fili sottili coloratissimi da cui l’atto artistico prende forma e si manifesta, in un percorso che non tende a stemperarsi in una mostra didascalica piuttosto ad introdurre il fruitore verso una catarsi visiva e ieratica, esattamente come nella traditio europea dell’ultimo millennio da poco concluso. E sul concetto dell’apparizione rincalza Emmanuelle Leblanc: con la sua “Ninfa” ripropone il mito ancestrale della profondità del pensiero della cultura occidentale per cui l’esperienza di Narciso non può definirsi del tutto conclusa. Tempi nuovi e tecniche d’avanguardia, lo stagno e l’acqua che lo pervadeva hanno ceduto il passo a stigmatismi contemporanei; rimane il mistero del confronto con l’altro da sé. Emmanuelle pone l’accento sulla spiritualità dell’individuo, sul confronto continuo tra l’essere e l’apparire, sulla levità del simbolo che affonda le sue radici profonde nella cultura elladica. L’eidolon del pensiero greco antico ritorna con tutto il peso della sua profondità, filtrato dall’alambicco di una religiosità inconsueta e non per questo inesplorabile. Joelle Bondil, forte della sua esperienza d’artista visuale, recupera una tecnica ancestrale per inserirsi nel ductus espositivo: il filo, quello autentico fatto di cotone che dalla mitologica esperienza palaziale di minoica ascendenza, è giunto immacolato fino a noi, in un perfetto sincretismo religioso, attraversando secoli e culture altre. Le “Teste” che ha realizzato mediante la tecnica obsoleta (per i distratti e i frettolosi!) del diuturno lavoro ai ferri, si configurano quali disarmanti, popolani ex voto, in una società che tutto fagocita. Joelle recupera mediante i suoi fili sottili, il legame con l’arcaica vulgata d’Europa. Rielabora in maniera del tutto poetica, la saggezza di Mnemosine, la figlia di Urano e di Gea,  amata da Zeus; colei che scoprì il grande, l’immenso potere della memoria, ma anche la sua stessa labilità se non coniugata all’atto fideico, quello che il figlio di Dio ha proposto all’uomo quale via salvifica. Allora, Teseo, non indossa più le vesti dell’eroe titanico che libera la sua Arianna dall’ingordigia del Minotauro; secondo la proposizione di Joelle Bondil, il filo ha la capacità di tenere saldo il rapporto con la religiosità; una metafora antica che si rinnova ogni volta che il legame tende a vacillare, se le inquietudini contemporanee cercano di prendere il sopravvento. Per ciò che concerne gli altri due artisti, lo slovacco Michal Korman e Gennaro Scarpetta, i punti di partenza sembrano in apparenza divergenti: il primo propone i risultati di un viaggio iniziatico, compiuto tra il 2005 ed il 2007 verso le terre d’Italia, alla ricerca di un confronto con una cultura d’arte differente dalla sua formazione mitteleuropea. Ha seguito allora l’esperienza dei padri del Grand Tour, sulla scia di Jacques-Louis David, Théodore Géricault. E’ Jean-Baptiste Camille Corot che Michal  Korman elegge quale suo maestro durante il viaggio dell’animus e del corpo, alla ricerca di quella bellezza aristotelica che nell’immaginario collettivo, l’Italia ancora profonde. Roma e Venezia si pongono dunque come termini policentrici nelle istanze e nelle aspettative di Korman. Protagoniste assolute  sono l’acqua della laguna veneziana, quasi immobile, nella lentezza del suo movimento e di contralto, la copiosa fluidità dei flutti tiberini che hanno visto scorrere sotto i ponti romani il sangue dei martiri cristiani e gli aneliti della Civitas Aeterna, secondo l’accezione agostiniana. Nelle mani di Michal Korman, l’uso sapiente e controllato della tecnica ad olio su tela e quella evocativa, nostalgica dei profeti dell’en plein air evidenziano una leggerezza di tratto che rende rinnovata e rivisitata la pittura di Corot. Gennaro Scarpetta tradisce negli accenti cromatici e nella controllatissima introspezione delle sue marionette “ruffiane”, la matrice religiosa del suo percorso d’arte. Disvela nella pacatezza del suo nuovissimo linguaggio pittorico, intriso d’accenti francofoni e da pochissimo dell’esprit d’art del conclave berlinese,  il suo tributo non più accademico a Giorgio Morandi, al realismo magico e trasognato di Felice Casorati o alla angoscia vibrante e tenera al contempo di Chaïm Soutine. I fili appaiono nei lunghi teli e  nelle sue opere, quali leganti forti e saldi verso una rinnovata laicità della sua personalissima fede. Si tramutano allora,  nell’iter della mostra proposta, nelle robuste corde monocentriche e polisemiche dell’Arte, talvolta sbilenche in apparenza ma che in un baleno, sotto la spinta di venti propizi s’issano d’improvviso verso il riscatto dell’uomo e la sua catarsi finale.

Teobaldo Fortunato