Relazione Mons. Franco Giulio Brambilla
IN GESÙ CRISTO IL NUOVO UMANESIMO
DAI “CINQUE AMBITI” ALLE “CINQUE AZIONI”?
mons. Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara
Dove va la pastorale della Chiesa italiana?
La pubblicazione degli Orientamenti della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo Educare alla vita buona del Vangelo ha introdotto il tema dell’educazione come filo rosso dell’agire pastorale delle Chiese in Italia per questo decennio. In particolare, nel n. 54 del capitolo V, dedicato alle “Indicazioni per la progettazione pastorale”, ha ricuperato i percorsi di vita buona mediante i “cinque ambiti” di Verona. Negli anni precedenti era emersa la domanda sulla funzione dei cinque ambiti, richiamata da alcune Chiese e dagli interventi di molti Vescovi. La domanda era la seguente: nel pensare la missione della Chiesa bisogna operare un passaggio dai tria munera ai “cinque ambiti”?
La domanda sul passaggio dai tria munera ai “cinque ambiti” va però precisata, per non cadere nella moda di cambiare gli schemi senza modificare il nostro approccio alla realtà. Richiamerò brevemente il significato dell’introduzione dei cinque ambiti. Il senso del passaggio dai tria munera ai cinque ambiti non comporta di abbandonare lo schema ecclesiologico del triplex munus in favore dell’“attenzione antropologica”, declinata nei “cinque ambiti” di Verona, ma di articolare correttamente le due istanze.
1.Il senso dello schema dei tria munera
Lo schema dei tria munera ha una storia lunga[fusion_builder_container hundred_percent=”yes” overflow=”visible”][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”no” center_content=”no” min_height=”none”][1]. Il modello dei tre uffici della Chiesa (annuncio, celebrazione, carità) va valutato sotto due aspetti. Sul piano critico esso ha favorito 1) il superamento della prospettiva dei poteri e di una visione gerarcologica della Chiesa, che articolava l’agire della Chiesa in potere di ordine e giurisdizione; 2) il ricupero della dimensione di evangelizzazione, che supera l’enfasi sulla dottrina, posta in tensione con la dimensione sacramentale e comunionale (fraterna e caritativa) della Chiesa. Sul piano positivo, il modello dei tria munera ha permesso di: 1) esprimere la ricchezza (unità, pluralità e complementarità) della missione della Chiesa; 2) comprendere il rimando della missione della Chiesa (e in essa dei cristiani con i loro carismi e ministeri) alla missione di Cristo; 3) attuare la missione della Chiesa (e dei cristiani) portando Cristo agli uomini e gli uomini a Cristo, attraverso una vera apertura della Chiesa al mondo e una reale assunzione del mondo nell’agire della Chiesa.
Bisogna riconoscere i pericoli dello schema manifestatisi talvolta nel periodo postconciliare: a) la tendenza alla compartimentazione dei munera e alla parcellizzazione delle azioni pastorali che ne derivavano; b) l’ulteriore suddivisione all’interno dei tria munera e la moltiplicazione degli strumenti (e uffici) dedicati ad essi. La trilogia di annuncio, celebrazione, comunione, ha faticato a mostrare la complementarità di Parola, Liturgia e Carità, per costruire l’identità della vita cristiana di fronte alla sfida della storia e del mondo.
Allora, non basta sostituire semplicemente allo schema ecclesiologico (Parola, Sacramento, Carità) l’attenzione antropologica (i cinque ambiti). Lo schema dei tria munera dice l’unità e pluralità della missione della Chiesa che si offre come dono dall’alto irriducibile a ogni umanesimo; il rilievo antropologico dell’azione pastorale della Chiesa è destinato all’unità della persona e alla “figura della vita buona”. La funzione degli ambiti antropologici non sostituisce la funzione ecclesiologica dei tria munera, ma tende a correggerne il limite: che trapela quando la missione della Chiesa si sottrae al suo destinatario, pensandosi in modo autoreferenziale e pensando il destinatario semplicemente come termine della sua azione.
2. L’“attenzione antropologica” dei “cinque ambiti”
La funzione dei cinque ambiti è di sostenere l’attenzione pastorale all’identità della persona, nelle relazioni che costruiscono la sua storia (esemplificata nella vita affettiva, lavoro e festa, fragilità personale e sociale, trasmissione educativa e comunicativa, cittadinanza). Non basta parlare di affetti, lavoro e festa, fragilità, tradizione e cittadinanza: è facile disperdersi nella loro descrizione, senza che si mostri la loro relazione alla vita buona del Vangelo. Così s’introduce un limite ancor più grave: la “riduzione antropologica” del cristianesimo. L’attenzione antropologica può essere illustrata attraverso tre piste di ricerca[2]:
a) Costruire l’identità della persona
L’attenzione antropologica si focalizza su una concezione integrale della persona, operando un discernimento critico della modernità e del postmoderno. La modernità pone al centro il punto di vista della coscienza: essa rimane un guadagno indimenticabile. Tuttavia, bisogna fare un discernimento proprio sull’aspetto che è il sigillo della modernità: la coscienza non può pensarsi senza relazioni, in modo autarchico, soggettivistico e individualistico, come presenza im-mediata a sé stessa a prescindere da ogni relazione. L’immagine autotrasparente della coscienza va sottoposta a critica proprio per salvarne il guadagno essenziale: l’identità della persona si costruisce in una trama di relazioni “mediate” (col corpo, il mondo, gli altri, il noi sociale). Inoltre, seguendo le suggestioni del postmoderno, la questione dell’unità della persona non può essere pensata solo proponendo strategie di armonia psico-corporea della vita frammentata, ma l’unità dell’esperienza personale si realizza come il cammino esaltante, ma faticoso della relazione ad altri. Un’identità non può costruire solo strategie di benessere, individuale e sociale, ma deve proporre percorsi di vita buona, aperti alla scelta (etica) e vocazionale (religiosa) della vita.
A Verona avevo proposto la formula: occorre «imparare l’alfabeto della vita umana per dire in esso la parola cristiana». I cinque ambiti rappresentano una rete per costruire la coscienza dell’identità personale dentro le relazioni affettive, nel tempo del lavoro e della festa, attraverso le esperienze di fragilità, sostenendo i processi di trasmissione della vita e della fede, nel vasto campo della cittadinanza. Che cosa significa tale “attenzione antropologica”? Non richiede forse una vera “competenza antropologica” nei linguaggi, nelle relazioni, nelle azioni pastorali?
b) Ritrovare il “paradigma generativo” dell’educazione
La prospettiva educativa è la scelta storica di questo decennio per costruire l’identità e l’unità della coscienza. Occorre ritrovare il paradigma originario dell’educazione: esso è iscritto nella vita stessa dell’uomo e dimora da sempre nella carne dell’uomo. È l’evento della generazione, il senso e il modo con cui la vita viene trasmessa e ricevuta. Purtroppo, ha sconsigliato la ripresa di questo paradigma la sua versione autoritaria, che ha avuto il suo momento acuto nell’Ottocento e che ha generato una reazione antiautoritaria, maternalista e puerocentrica nel Novecento.
Il modello antiautoritario novecentesco dell’educazione (si sente spesso dire, anche da genitori cristiani: “quando sarà grande deciderà lui stesso”) corrisponde alla crisi di autorità nella tradizione civile, morale e religiosa della società moderna. Manca il riferimento autorevole nel discorso educativo, mentre la formazione della coscienza è ormai questione privata. Il rapporto educativo, tuttavia, rimanda alla generazione, al rapporto genitori-figli, anche se la forma paternalista di questo modello ancor oggi sconsiglia a molti di riprenderlo. È possibile indicare una concezione non paternalista del “paradigma generativo”: i genitori trasmettono la vita con tutto il suo corredo in dotazione (si pensi solo alla lingua, con cui essi trasmettono il “senso” del mondo), e devono lasciare lo spazio e il tempo perché la vita trasmessa sia ricevuta come un dono e non solo come una cosa di natura. Questo spazio e tempo sono l’atmosfera della crescita della libertà. Diventar grandi non è nient’altro che il cammino con cui riconoscere il debito grato alla vita che ci è stata trasmessa.
Generare allora significa “dare alla luce”, ma non si può farlo se non “dando una luce” per vivere. Non è un gioco a due, genitori-figli, ma un’avventura a tre: il padre e la madre sono dispensatori della vita per conto di un Terzo. Essi trasmettono il dono e il senso del mistero dell’esistenza, perché sia promessa e appello; e perché ciascuno scelga non i genitori, ma ascolti la chiamata della vita che essi trasmettono[3].
Identità, generazione e cammino costituiscono, dunque, un unico processo “drammatico”, con cui la vita generata e donata (l’identità psichica e sociale ricevuta) apre il “cammino” (attraverso un dráma, un agire disteso nel tempo) per diventare una vita voluta (l’identità personale e vocazionale scelta). Occorre una pedagogia (famiglia, scuola, comunità, associazioni, movimenti, ecc.) che trasmetta forme di vita buona liberando il soggetto e ponendolo dentro una relazione ricca e plurale, in cui si donano valori, comportamenti, saperi, decisioni e si abilita la persona a riceverli, ad assumerli personalmente, a farne esperienza stabile e stabilizzante, a condividerli responsabilmente con altri.
c) Promuovere una pastorale integrata
Tutto ciò impone un ripensamento della pastorale: le azioni, i progetti, le iniziative e i soggetti pastorali della Chiesa devono funzionare in modo integrato non solo tra di loro, ma anche con le forze educative presenti sul territorio. Pastorale “integrata” e/o pastorale “d’insieme” indicano l’urgenza del momento. Non tanto perché insieme è bello, ma perché l’azione comune e convergente consente di costruire cammini identitari forti e aperti. Per questa fondamentale “motivazione antropologica” occorre la convergenza sugli elementi essenziali dell’agire pastorale. Bisogna che tutti gli interessati siano capaci di ascoltare, immaginare, pensare e agire insieme: la parola deve aprirsi al sacramento, la liturgia deve alimentarsi all’evangelizzazione, annuncio e celebrazione devono edificare la comunione e la carità, la vita cristiana non può non aprirsi al mondo. C’è un’immanenza reciproca dei tria munera, che ne fanno un sistema a vasi comunicanti, perché nell’uno deve circolare la linfa vitale dell’altro.
Un’interpretazione diffusa dell’evangelizzazione nei termini di formazione spirituale, catechetica, liturgica e anche caritativa è attraversata da una sorta di sindrome “fondamentalista”. La parola, l’evangelo, la spiritualità e la stessa carità sono vissute a monte della loro capacità di interpretare le forme pratiche della vita con le loro mediazioni culturali. Noi trasmettiamo sempre il vangelo (e i valori) dentro forme pratiche di vita, ma consegnando questi dovremmo continuamente non annunciare noi stessi o i nostri modi di vivere, ma il vangelo di Gesù. Esso non s’incontra allo stato puro, ma dentro un volto e una storia, a condizione che questi volti e queste storie di vita dicano Lui e non essi stessi. La sfida educativa ha bisogno di maestri che siano testimoni! La Chiesa deve custodire il cammino di una buona educazione, come momento necessario dell’evangelizzazione, deve sapere che, senza questa, l’evangelizzazione resta consegnata all’illusione delle grandi parole, ma all’insignificanza per l’esistenza pratica.
3. Generare è…: il nuovo umanesimo in “cinque azioni” o “vie!”
Mi ha colpito che la “Traccia di riflessione” per il Convegno di Firenze termini con alcuni verbi, che indicano le “cinque operazioni verso l’umanità nuova” (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare). I “cinque ambiti” sembrano richiedere di tradursi in “cinque operazioni” per l’“umanesimo nuovo” che nasce “in” Gesù Cristo. Potremmo riprendere questi cinque verbi, in continuità con i cinque ambiti di Verona, così da rendere dinamici gli ambiti con gesti operativi che mettano in sintonia la luce del Vangelo con l’esperienza umana. Ciascuno potrà leggere con frutto il percorso indicato nella “traccia”: «cinque operazioni che consentono il dischiudersi dell’umanità nuova dentro la complessità della nostra epoca».
Da parte mia, come contributo personale, provo a sviluppare un’intuizione che mi sembra promettente e complementare a quella indicata dalla traccia. Se il compito educativo personale e sociale è quello di una “nuova generazione dell’umano in Cristo”, allora è proprio il verbo “generare” che può suggerirci la prospettiva sintetica delle cinque operazioni per la “genealogia dell’uomo nuovo”. Ho trovato un piccolo, ma prezioso testo che ci indica una pista, articolata in cinque verbi per la “costruzione di un umanesimo nuovo”[4]. La sua tesi centrale è la seguente: per essere “generativi”, per far nascere un “nuovo umanesimo”, occorre coltivare alcune operazioni, espresse in cinque verbi: desiderare, concepire, mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare.
Provo a svolgere – in prospettiva pastorale – il sogno di una Chiesa capace di generare la novità dell’umano, disegnando il volto di Cristo nel cuore degli uomini. Una Chiesa che genera è una Chiesa capace di camminare insieme, compiendo queste cinque azioni, che diventano anche cinque operazioni pastorali:
– desiderare: è forse questo il punto su cui dobbiamo lasciarci toccare di più il cuore. Desiderare è guardare la stella polare della nostra testimonianza cristiana ed ecclesiale, capace di tessere i fili d’oro del desiderio di una Chiesa dei legami di fraternità e prossimità. Bisogna risvegliare il desiderio, non deprimersi nel consumo della gratificazione istantanea, ma coltivare sogni in grande. Un sogno, se non condiviso, s’intristisce e dura lo spazio di un mattino, ma non regge alla prova del tempo. Un sogno richiede coraggio, calore, fiducia, generosità. La prima operazione pastorale deve risvegliare il desiderio: si tratta quasi di retrocedere per fare un balzo in avanti. In una società dei consumi è necessario accompagnare le persone, i giovani soprattutto, a passare dall’essere soggetti di bisogno a diventare capaci di relazioni. Non basta aver bisogni da saturare, ma occorre coltivare desideri, che sanno fin dall’inizio che ciò che si realizzerà sarà sempre un frammento della ricchezza del sogno. Torniamo a desiderare, a spronare, a stimolare, camminando insieme! [5]
– concepire: la seconda azione, come ogni umano concepimento, può essere frutto soltanto di un atto d’amore! Non si può concepire da soli, in provetta, o prestando il grembo in affitto. Generare la Chiesa di domani è un atto di passione, di amore tenero e forte, di incontro che esige attesa, pazienza, parola, silenzio. Si può concepire solo dentro buone relazioni, dentro un disegno comune, col desiderio di costruire una storia insieme. Concepire è un momento creativo, è sfidare il tempo che passa e corrode. “Amare – come dice Gabriel Marcel – è dire a un altro: tu non morirai”. Concepire la vita è un rischio, ma l’unico per cui vale la pena, perché genera un’esistenza nuova. A un certo punto – come nel cammino di una coppia – è necessario non rimanere eterni adolescenti, bisogna mettere al mondo la vita, realizzare l’universale nel particolare, il tutto nel frammento, far brillare la forza della luce perché vinca sulle tenebre. Se non vogliamo rimanere sterili, se alla fine della nostra vita non si dovrà raccontare solo quante strutture abbiamo costruito, ma quanta vita abbiamo sprigionato e liberato, allora è giunto il momento di concepire. L’aria di primavera della Chiesa attuale è favorevole a far crescere vita nuova: possiamo noi perdere il soffio dello Spirito che aleggia sul nostro tempo? Si concepisce nel cuore e nel grembo, si dona la vita almeno in due: chi fa da solo non fa per tre, ma resta isolato con sé. Per generare bisogna lasciar scendere di nuovo lo Spirito, parlare ciascuno la propria lingua capendo quella dell’altro. Nessuno perde la sua identità, ma genera nuove storie di vita, apre orizzonti di speranza. La seconda operazione pastorale è il momento intimo, il gesto pudico dell’amore che concentra la potenza di un sogno nel gesto particolare, che arrischia di mettere al mondo la vita, che diventa “creativo” nel realizzare, tra le molte possibilità, quella che sarà il proprio contributo alla chiesa e al mondo.
– mettere al mondo: è il miracolo della vita che nasce, è la gioia di una Chiesa che si lascia toccare dal soffio di Dio. Non abbiamo più occhi per vedere il miracolo della nascita. Auguro a ciascuno di voi di “far memoria” di quel giorno in cui la vita ci ha sorriso, quando l’essere credenti ci ha dato gioia profonda per aver trasmesso energia attorno a noi: per un giovane che ci ha detto “tu mi hai capito e mi sei stato vicino!”; per una famiglia alla quale abbiamo donato la pace, asciugato le lacrime, riempito la sua casa della parola che rincuora e della carezza che consola; per un povero a cui abbiamo dato un pane e poi gli abbiamo insegnato a guadagnarselo con la dignità del proprio lavoro. Mettere al mondo è collocare la vita nel mondo, in-segnare a “stare-nel-mondo” e a “stare-al-mondo”. La terza operazione pastorale è tutta contenuta nel verbo “in-segnare”: si tratta di segnare-in, di iscrivere-dentro la vita del mondo la gioia del Vangelo. Per questo la Chiesa è naturalmente missionaria, perché è inviata nel mondo, non può stare rinchiusa in se stessa. È una Chiesa “in uscita”, perché immette nella carne di ciascuno la forma della vita bella e affascinante, sciolta e libera, gioiosa e generosa. Se non si può concepire da soli, anche per insegnare a stare-al-mondo, io ho bisogno di te, ciascuno ha bisogno degli altri! Insegnare a stare-nel-mondo, oggi, come nella Chiesa degli Apostoli, richiede l’armonia di molti, la passione di tutti, la sapienza degli anziani, la solidità degli adulti, la fresca energia dei giovani.
– prendersi cura: la cura è la missione alla “prova del tempo”! La quarta azione fa la differenza. La cura rende un uomo e una donna, una coppia e una famiglia, un professionista e un volontario, un prete e un vescovo, diversi gli uni dagli altri. Se “cura” deriva dal latino “quia cor urat” (perché scalda il cuore), allora il “prendersi cura” è il momento della fedeltà. Un tempo iniziavo il corso fidanzati con questo motto: “la fedeltà è il nome maturo della libertà”. La fedeltà è la generosità distesa nel tempo, perché non teme la prova, tiene in mano le emozioni, coltiva la retta intenzione e la libertà del cuore. La passione distesa del tempo ha la forma della cura materna e del cuore paterno. Essa è entrare nella prova del tempo, dell’essere posti di fronte al limite (“ti ha umiliato e messo alla prova”), è persino far l’esperienza amara che i beni che sembravano disponibili, manipolabili, non sono più a portata di mano, ma bisogna nutrirsi di un nuovo cibo, il cui nome è una domanda (Man-hu: “che cos’è?”). La terza operazione pastorale comporta il “prendersi cura”: non è solo investire risorse, energie, mezzi, programmi (cure), ma coltivare una passione (care), che è insieme un patire e un soffrire e, poi, un appassionarsi e uno spendersi. Dovremmo sperimentare com’è bello stare con la gente, aprirsi a loro, essere indifesi, lasciarsi premere da ogni parte, sentirsi “con loro fratelli, per loro padri e madri”. “Prendersi cura” è la forma eminente della carità pastorale, è il cuore del pastore, è la gioia di una comunità che beve alla sorgente fresca e zampillante, è la grazia di una parrocchia che sprigiona attorno a sé fascino e bellezza. “Prendersi cura” è ciò che vorremmo sentir dire di noi l’ultimo giorno, perché nel silenzio e nella divina leggerezza dello Spirito è stato il segreto di ogni giorno della nostra vita cristiana.
– Lasciar andare: infine l’ultima azione è quella di “lasciar andare”. Generare vuol dire lasciar partire, scoccare, con l’arco della nostra carità, la freccia che entra nel futuro! Generare vuol dire costruire un anello della tradizione. La traditio non consiste solo nelle “cose trasmesse”, ma soprattutto nell’“atto del trasmettere”. Anzi, del “lasciare ereditare”. Noi abbiamo insistito molto sulla comunicazione e sulla trasmissione della fede, ma è giunto il momento di far spazio anche alla possibilità di riceverla ed ereditarla. La Chiesa “non è mia, non è nostra, ma è del Signore!” diceva Benedetto XVI il 27 febbraio 2013 suggellando il suo ministero con un gesto inaudito: facendo ereditare la Chiesa, perché è del Signore. Chi è pastore così, chi lascia andare, chi fa ereditare, genera vita cristiana e fecondità umana attorno a sé. È l’esperienza dei grandi santi della carità: non hanno avuto il delirio di onnipotenza di guarire e salvare tutti, non si sono messi al centro, ma sono stati in mezzo come chi serviva. Servivano la carità di Dio e l’amore del prossimo. E sapete qual è stato il risultato? Ne hanno guariti e salvati di più, perché hanno affascinato altri allo stesso sogno e alla comune impresa. Si sono voltati e hanno visto che molti li seguivano, perché li avevano lasciati andare, li avevano educati non a seguire loro, ma il Signore. Noi ricordiamo ancora la Chiesa “generativa” di Antonio, Pacomio, Benedetto, Scolastica, Colombano, Francesco, Chiara, Giovanni della croce, Teresa la grande e la piccola, Elisabetta della Trinità, don Bosco, don Orione, don Calabria e Teresa di Calcutta, per non citare che le cime altissime dei santi universali. Questa è la nostra sfida! L’ha espressa in modo lapidario Goethe: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero!»[6]. L’ultima operazione pastorale è la più difficile: lavorare con l’orizzonte di chi viene dopo di noi.
Ecco la conclusione: se i “cinque ambiti” di Verona ci hanno aperto agli spazi dell’attenzione antropologica, le “cinque azioni” di Firenze (quelle della “traccia” e/o quelle che vi ho illustrato poco sopra) ci lanciano nelle cinque operazioni dell’agire generativo. L’“umanesimo di Cristo” è “nuovo” solo se è generativo: generare è un atto complesso, unitario nella sua intuizione, variegato nella sua attuazione. Esso mette la nostra libertà, personale, ecclesiale e sociale alla prova del tempo. Vorrei raccoglierlo con le parole del grande teologo Johann Adam Möhler: «Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può credere di essere il tutto, ma solo la diversità e l’unità di tutti è una totalità. Questo è l’eidos (l’ideale concreto) della Chiesa cattolica!».
+ Franco Giulio Brambilla
[1] Ho delineato brevemente questa storia nel saggio: «La pastorale della Chiesa in Italia. Dai tria munera ai cinque ambiti?», Rivista del Clero Italiano 92 (2011) 389-407. Qui ne raccolgo solo le conclusioni sintetiche. Allego la bibliografia interessata al tema: Y. Congar, Jalons pour une théologie du laicat, Cerf, Paris 1953; I. de La Potterie, «L’onction du Christ», NRTh 80 (1958) 225-250; J. Lécuyer, «Il triplice ufficio del vescovo», in G. Baraúna, La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi Editore, Firenze 1965, 851-871; L. Hödl, «Die Lehre von den drei Ämtern Jesu Christi in der dogmatischen Konstitution des II. Vatikanischen Konzils “Über die Kirche”», in Wahrheit und Verkündigung. Michael Schmaus zum 70. Geburtstag, Schöning. München-Paderborn-Wien 1967, vol. 2, 1785-1806; J. Fuchs, «Origines d’une trilogie ecclésiologique à l’époque rationaliste de la théologie», RSPhTh 53 (1969) 185-211; L. Schick, Das Dreifache Amt Christi und der Kirche, Lang, Frankfurt am Main 1982; A. Fernández, Munera Christi et munera Ecclesiae. Historia de una teoría, Ed. Universidad de Navarra, Pamplona 1982; Y. Congar, «Sur la trilogie Prophète-Roi-Prêtre», in RSPhTh 67 (1983) 97-115; P.G. Drilling, «The Priest, Prophet and King Trilogy: Elements of its Meaning in LG and Today», in Église et Théologie 18 (1988) 179-206; L. Ullrich, «Ämter Christi», in LThK3, Herder, Freiburg – Basel –Wien 1993-2001, I, 561-563; Quaderniteologici del Seminario di Brescia, La funzione regale di Cristo e dei cristiani, Morcelliana, Brescia 1997, in particolare l’art. di A. Maffeis, Alle origini della dottrina del triplice munus di Cristo. Giovanni Calvino, pp. 135-172. [2] Su quest’aspetto dell’attenzione antropologica, che rappresenta la preoccupazione fondamentale dell’articolazione di “cinque ambiti” di Verona, e che qui sintetizzo nei suoi tratti essenziali, si veda il mio: «In Gesù trova luce il mistero dell’uomo. Costruire l’identità della persona come vocazione», in P. Triani (a cura di), Educare, impegno di tutti, Ave, Roma 2010, 63-83. In esso sviluppo le tre piste di seguito sunteggiate, collocandole nella temperie attuale dei problemi educativi. [3] Per una più ampia illustrazione del “paradigma generativo”, cfr il mio: «Generazione dell’umano, trasmissione della fede: un passaggio a rischio», in V. Paglia (a cura di), Ho ricevuto, ho trasmesso. La crisi dell’alleanza tra le generazioni, Vita e Pensiero, Milano 2014, 109-122; e più in genere i saggi contenuti in questo volume. [4] M. Magatti – C. Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 2014: il testo è scritto in prospettiva sociale. L’ho assunto come canovaccio di un percorso pastorale per una chiesa “generativa”. [5] Cfr. l’intervento al Convegno di Pastorale Giovanile a Genova: «Tra il porto e l’orizzonte: l’avventura!», Regno Documenti 59 (2014) 156-161. [6] Cfr . «Tra il porto e l’orizzonte: l’avventura!», il paragrafo dedicato a «Il donatario della cura: la capacità di ereditare», 160-161.
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