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L’omelia della Messa Crismale 2023

L’omelia della Messa Crismale che è stata pronunciata questa mattina dal Vescovo durante la Celebrazione del Giovedì Santo nella Cattedrale di San Prisco. «Il presbitero riceve una nuova identità: è presbitero per Cristo; è donato con Cristo; è nuovo in…

L’omelia della Messa Crismale che è stata pronunciata questa mattina dal Vescovo durante la Celebrazione del Giovedì Santo nella Cattedrale di San Prisco. «Il presbitero riceve una nuova identità: è presbitero per Cristo; è donato con Cristo; è nuovo in Cristo», ha detto mons. Giuseppe Giudice

 

 

 

 

 

«Noi siamo la voce, che si perpetua di anno in anno e ripete la testimonianza di coloro che primi lo videro con i propri occhi e lo toccarono con le loro mani. Siamo i trasmettitori del messaggio di vita della risurrezione di Cristo.
Siamo la voce della Chiesa per questa fondata e diffusa nell’umanità, pronta a confermare col proprio sangue la propria parola» (San Paolo VI).

«Egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta.
Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo» (Eb 7,24; 12,1-3).

 

 

Liturgia della Parola

Is 61,1-3a.6a.8b-9

Sal 88(89)

Ap 1,5-8

Lc 4,16-21

 

 

Sorelle e fratelli,

carissimi presbiteri,

collaboratori del Vescovo,

Chiesa adunata nella stanza al piano superiore, pace a Voi!

 

L’annuale celebrazione della Pasqua, sorgente e cuore della nostra fede, ci fa ancora partecipi del desiderio del Maestro: Desiderio desideravi, capovolgendo il nostro modo di pensare per renderci conto che non siamo noi a desiderare la Pasqua, ma è Lui che desidera consumare la sua Pasqua con noi.

 

Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello! (Ap 19,9).

Distratti, indifferenti o indaffarati, declineremo noi il suo invito?

E siamo di nuovo qui: desiderosi di camminare ed incapaci a farlo; con il desiderio del cielo, ma impastati nel fango; con grandi sogni, ma sempre infranti nel mattino della nostra esistenza; siamo qui, anelanti alla terra promessa, ma sempre razzolanti nella nostalgia delle cipolle di Egitto (cfr Nm 11,5).

Siamo qui e, nonostante tutto, è ancora Pasqua, e il sangue dell’Agnello segna gli stipiti delle nostre porte, affinché l’angelo sterminatore passi oltre, e ci salvi.

 

Poniamo a suggello di questo giorno santo, una densa parola del Papa emerito Benedetto XVI, pronunciata al Convegno di Verona il 19 ottobre 2006: «È ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2, 20). È stata cambiata così la mia identità essenziale, tramite il Battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale».

 

Chi è il sacerdote? E che cosa vuol dire sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek? (cfr Eb 7,1-3.15-17).

 

Nel mistero della vocazione, carissimi vocati, dobbiamo accettare con cuore docile questa nuova identità, che si fonda nel Battesimo ed è portata a maturazione dagli altri sacramenti.

Pur scelto tra gli uomini, il presbitero riceve una nuova identità: è presbitero per Cristo; è donato con Cristo; è nuovo in Cristo.

Questa identità, anche se trascritta in qualche archivio della nostra geografia, sempre esula da esso perché radicata nel cuore di Cristo che, per così dire, quasi ci sfratta dai bassifondi delle nostre povertà, per portarci in alto: sursum corda.

Questa nuova identità – io, ma non più io – ci libera da tutte le pastoie della storia, ci immerge nel mondo, ma continuamente ci ricorda che non siamo del mondo (cfr Gv 17,6).

Pur calpestando la terra, siamo figli del cielo; ministri della Chiesa e in dialogo con tutti; ma sempre umilmente gelosi della nostra identità presbiterale, che non ci isola ma ci preserva e ci fa abitare, da servi, nella stanza eucaristica al piano superiore.

Gelosi e custodi di questa nuova condizione, non ricercata ma ricevuta in dono, questa nuova carta di identità firmata e timbrata con il sangue di Cristo, gelosi come di un amore che riempie la vita, la nutre e la salva per sempre.

Questa nuova identità, che Cristo ci consegna nel giorno dell’Ordinazione, configurandoci a sé Crocifisso-Risorto, non deve essere scalfita da niente e da nessuno.

Questa identità presbiterale, attinta alle sorgenti della Parola, dei Sacramenti e della Carità, vissuta nella comunione ecclesiale, da custodire e alimentare nel tempo, e da verificare puntualmente con una seria formazione permanente, ci libera dalla omologazione al pensare comune, non ci conforma alla mentalità del tempo, ma ci abilita ad una missione tutta ricamata sulle pagine del Vangelo.

Io, ma non più io… ben sapendo che «in quest’opera Cristo associa sempre a sé la Chiesa sua sposa amatissima, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza, … giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (cfr SC,7).

 

Carissimi,

chi è il presbitero oggi?

 

È quello di sempre, perché nato dal cuore e sul cuore di Cristo; ma è sempre nuovo, perché nuove sono le sfide e le sollecitazioni da affrontare, nuovi e più complicati i destinatari, nuovi gli orizzonti; ed è in questo gioco tra antico e nuovo che ci giochiamo il nostro ministero, e come saggi amministratori dobbiamo estrarre dal tesoro del Regno cose nuove e cose antiche (cfr Mt 13,52).

Qui si iscrive il nostro equilibrio, si verifica la solidità della nostra formazione, qui si celebra la gioia del servo inutile della Pasqua, e la capacità di essere sempre attuali in un mondo che cambia vorticosamente e, forse, non ce ne accorgiamo.

Siamo sacerdoti, secundum ordinem Melchisedek (cfr Eb 7,1.15-16).

Di Melchisedek, il sacerdote che andò incontro ad Abramo nel libro della Genesi (cfr Gen 14,17-20), non vengono menzionati i tratti che ne delineano l’appartenenza religiosa, ma viene presentato come re di Salem, nome che evoca la Shalom – la Pace -, e si riferisce che si mostra accogliente verso il patriarca.

Di lui si afferma che non ha una genealogia, a differenza dei sacerdoti di Israele, che erano tali per la loro discendenza da Aronne; ciò non dice mancanza di identità, ma appartenenza al mistero di una origine che solo l’Eterno conosce.

L’autore della Lettera agli Ebrei vi vede prefigurato il Cristo Sommo Sacerdote e Re, quel Messia che non esita ad andare incontro all’umanità ferita e a guarire anche in giorno di sabato, inaugurando un culto in Spirito e Verità.

Melchisedek si pone sul cammino di Abramo e si mette in mezzo tra i due re per assicurare una presenza ulteriore, quella del Signore: Io, ma non più io; perché, tra di noi, c’è un Altro.

Ed è in questa presenza anche il fondamento di una vita spirituale, da vivere nella fedeltà all’Altro e agli altri.

Melchisedek, segno di ogni sacerdote, si pone in mezzo, fa da ponte, pontefice, per aiutare gli altri a riconciliarsi; non alza barriere, ma si offre come mediatore di pace e giustizia, segno di Cristo, unico ed eterno Sacerdote, sacerdozio che non tramonta.

Questa identità, di cui sempre dobbiamo essere custodi, non può e non deve diventare l’alibi per separarsi, estraniarsi, quasi a formare una casta; ma ritornando alla grande lezione del Concilio e del Magistero autentico, sempre ci deve ricordare che la luce non si nasconde sotto il moggio; il sale non può perdere il sapore; né la città sul monte può rimanere nascosta, ma il Vangelo – luce, sale, città illuminata –, va proposto a tutti perché nessun angolo della vita rimanga al buio o insipido (cfr Mt 5,13-16).

 

Questa nuova identità, che nasce dalla Pasqua di Cristo, mi lega in modo indivisibile all’Altro e agli altri, immergendomi per sempre nello stile sinodale ecclesiale, che è la Chiesa e fa vivere la Chiesa, communio sanctorum, e diventa il primo tassello di una profetica pastorale vocazionale.

Senza il mistero della Chiesa, che mi custodisce e mi nutre, non sarei più io, meno di io, un povero vagabondo, o un illuso.

Questa nuova identità, che viene dal Crocifisso-Risorto, si esprime in tutti gli atti della vita, e non viene meno soprattutto nel momento supremo della testimonianza e del martirio.

 

Con finezza teologica, commenta Sant’Agostino: «Si sarebbe pensato che, mentre il martire (Vincenzo) subiva la sua passione, uno sperimentasse la tortura e un altro diverso parlasse. E avveniva veramente così, fratelli. Avveniva proprio così: un altro parlava. Infatti Cristo nel Vangelo ha promesso anche questo ai suoi testimoni, preparandoli alla battaglia. Questa è stata la sua raccomandazione: “Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20). Il corpo dunque veniva torturato e lo Spirito parlava, e alle parole dello Spirito non solo l’empietà veniva confutata, ma anche la debolezza veniva fortificata» (Dai Discorsi di S. Agostino, Vescovo, Disc. 276, 1-2;PL 38,1256).

 

Posti ai bordi del Mistero, spesso si fa pensoso il nostro ministero; e la domanda, che dal cuore sale alle labbra, diventa intrigante: questo uomo contemporaneo, che ha dismesso il vestito della festa tessuto con i fili della Pasqua, e si dimena e si affanna tra strade feriali e feroci, è ancora disposto ad accogliere la salvezza che sgorga dalla Pasqua, dall’Alto e da un Altro, o si accontenta di un fai da te che lo illude di essere un dio o un quasi dio?

E noi, fratelli carissimi, forgiati dal mistero e spesso ingolfati in tante cose che appesantiscono l’esistenza, abbiamo coscienza lucida del dono che abbiamo ricevuto, posto dal Signore nelle nostre fragili mani?

Non è che, non poche volte, abbassiamo la guardia, appanniamo l’orizzonte, nascondiamo la vetta, per accontentare chi è abituato a dissetarsi ad altre sorgenti, a cisterne screpolate che non mantengono l’acqua?

Per non scoraggiarci, ci sovviene la parola dell’Apostolo: «Lo Spirito dice apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti ingannatori e a dottrine diaboliche, a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza: gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera. Proponendo queste cose ai fratelli, sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito. Evita invece le favole profane, roba da vecchie donnicciole» (1Tm 4,1-7).

«Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni» (1Tm 6,11-12).

Torniamo, allora, fiduciosi al Cenacolo del Giovedì Santo per ravvivare il dono che è in noi per l’imposizione delle mani (cfr 2Tm 1,6). Siamo stati unti, senza alcun merito, per preparare ai suoi figli il convito pasquale. Il nostro compito che è tanto semplice – preparare la mensa pasquale – può risultare difficile, complicato e ripetitivo, se non ci lasciamo trasformare e ringiovanire dallo Spirito Santo, che è lo Spirito del Risorto e della Pasqua.

Il Dio della Pasqua, Colui che ci ha chiamati sul lago della nostra povera esistenza, ancora ci chiama, ci manda e ci sostiene. Egli è fedele e non è solo un Dio che dona, ma è un Dio che si dona, facendo coincidere oggetto e soggetto, offerta ed offerente, dono e donatore e invitandoci ad imitarLo.

L’amore che si dona in ogni Eucarestia ci introduce nella stanza agapica di Dio, che non è il Dio delle cose, ma è il Dio della Pasqua, cioè della vita che si fa dono, e per questo redime e salva; e sempre ci trascina e ci coinvolge nel suo ardente desiderio: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antiquam patiar (Lc 22,15), lasciando come tracce nella nostra vita gocce di sangue e stille di luce, sintesi del Mistero cristiano e profumo evangelico.

Si, carissimi, qui abita la nostra gioia pasquale!

Amen.

 

Giovedì Santo, 6 aprile 2023

Cattedrale di San Prisco in Nocera Inferiore

+ Giuseppe Giudice, Vescovo

 

 

 

 

 

 

Tre segni per il Giovedì Santo

Era un giovedì santo, l’11 aprile 1963 (sessant’anni fa), quando Giovanni XXIII, il Papa buono, già segnato dal male, firmò la profetica enciclica Pacem in terris. La prima enciclica, rivolta non solo al mondo cattolico, ma ad ogni uomo di buona volontà, per insegnare che la pace è sempre impegno di ogni uomo.

 

L’essenza del bergamotto – il frutto coltivato sulla riviera ionica della provincia di Reggio Calabria – per profumare l’olio del Crisma del Giovedì Santo è un dono della Diocesi di Locri-Gerace a tutte le Diocesi italiane e ad alcune estere. Un segno delle cose positive che la Calabria sa produrre.

 

Quest’anno dell’olio proveniente da Capaci (Palermo) sarà aggiunto a quello predisposto dalla Diocesi, donato dalla forania di Angri.

 

L’olio di Capaci è ricavato dagli ulivi piantumati all’interno del “Giardino della memoria”, il parco dedicato a tutti i caduti nella lotta alla mafia e sorto dove furono ritrovati i resti della Quarto Savona 15, la Fiat Croma di scorta al giudice Giovanni Falcone, nella quale morirono i poliziotti Antonio Montinaro, Vito Schifani Rocco Dicillo nella strage del 23 maggio 1992.

La piccola produzione è stata realizzata grazie all’impegno della questura di Palermo e dell’associazione Quarto Savona 15, con la collaborazione degli studenti dell’istituto Majorana e dell’istituto penale per minorenni Malaspina.

Lo scorso anno, in occasione del trentennale delle stragi di Mafia, quell’olio venne distribuito a tutte le diocesi siciliane per essere benedetto e utilizzato come sacro crisma.

Nel 2023, anno in cui ricorre il trentennale delle stragi mafiose compiute nelle città di Firenze, Milano e Roma, grazie all’accoglimento da parte del presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Maria Zuppi, la donazione è stata estesa alle diocesi italiane.

Scarica il libretto: Omelia Messa Crismale 2023

Settimana Santa 2023: le Celebrazioni del Vescovo

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