Padre Pino Puglisi: un esempio che insegna ancora oggi
Don Pino Puglisi viene ucciso sotto casa, il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. Sono passati 27 anni da quel giorno, ma l’esempio del sacerdote di Brancaccio non smette di fare luce. L’intervista ad Alessandro D’Avenia, autore del libro Ciò che Inferno non è, testo in cui racconta la figura del beato.
di Mariarosaria Petti
È dalla cattedra di un professore che Alessandro D’Avenia, talentuoso scrittore siciliano, ci ha abituato a guardare il mondo. Lo ha fatto con il suo lavoro d’esordio Bianca come il latte rossa come il sangue e con il secondo fortunato romanzo Cose che nessuno sa. In Ciò che Inferno non è l’insegnante palermitano scava nei ricordi dell’adolescenza e rovescia quel rapporto maestro-alunno, riappropriandosi della veste di scolaro. Il professore? Un santo. Don Pino Puglisi.
L’incontro
Ha 16 anni Alessandro quando tra i corridoi del liceo classico di Palermo incrocia il sorriso di don Pino. Quel sorriso regalato ai bambini di Brancaccio e rivolto al suo killer il 15 settembre 1993, giorno del suo compleanno e ultimo di ancoraggio alla vita terrena. L’eredità del maestro all’allievo: «Si vedeva la sua stanchezza sul volto, ma non smetteva mai di dare pace, perché era innamorato di Dio e quel sorriso era la tenerezza di Dio sulle persone che incontrava. Persino sul suo assassino, come se riecheggiasse quel “perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Quando nella tempesta si sa che il mare pochi metri sotto è sempre calmo si conosce il segreto per vivere e per morire».
Lo stesso sorriso ha interrogato l’animo dello scrittore negli ultimi 20 anni, tempo in cui l’idea del prete è cresciuta e si è delineata, come afferma D’Avenia: «Come in quadro di Caravaggio l’uomo comune si aggira nella storia e la storia viene squarciata da un fascio di luce che non si sa bene da dove provenga. C’è chi rimane indifferente a quella luce, non ne coglie il bagliore, c’è chi invece ne viene avvolto, sconvolto e coinvolto. Prima della morte di don Pino noi non avevamo capito niente di lui, se non che fosse un ottimo professore e un ottimo prete. Poi la luce sprigionata da quella morte ci ha investito tutti e a molti ha aperto gli occhi e continua a farlo con il passare degli anni. Il libro è frutto di questa maturata chiarezza. Il sacrificio non era la morte, ma il sacrum facere: rendere sacre le vite di chi si ha accanto. Questo faceva lui».
Una santità raccontata con il massimo grado di realismo: l’uomo Pino Puglisi entra così nel cuore di tutti, credenti e non, perché è la storia di un’esistenza piena, di una «epica quotidiana – come la definisce l’autore, che trasforma – la prosa di ogni giorno nella poesia di una vita bella».
La narrazione
La chiusura della scuola e l’inizio delle vacanze sono il preludio di un viaggio-studio in Inghilterra per Federico, protagonista diciassettenne sul quale si sovrappone e confonde il passato adolescenziale del “prof. 2.0”, come recita il seguitissimo blog dell’autore. Rinchiuso nella Palermo bene, il ragazzo scopre che al di là di un passaggio a livello si dischiude un quartiere di cemento, frutto di anni di abusivismo edilizio, dove la brezza del mare fatica a respirarsi: Brancaccio. Si affaccia un’umanità feroce e ferita, disarmante e dilaniata. Una coralità di personaggi, ora descritti nei dettagli, ora appena accennati, cambia per sempre Federico che spiega ai suoi genitori: «Che senso ha andare in Inghilterra se nemmeno conosco l’altra metà della mia città? […]Quando vedi certe cose, poi non puoi più ignorare. Non mi va di girarmi dall’altra parte e fare finta di nulla».
E in quell’inferno, Federico incontra Lucia. Le loro vite galleggiano in dimensioni lontanissime fino a quando l’amore non regala all’uno occhi nuovi per osservare la realtà e all’altra la possibilità di sognare e rivestire di poesia la sua vita.
Nell’intreccio, in cui si rivengono piani narrativi e registri linguistici differenti, alle trame spietate ordite dalla mafia si contrappone l’operato silenzioso del prete dalle orecchie e scarpe grosse. È l’uomo che vuole continuamente mostrare ciò che inferno non è ai suoi bambini, assuefatti come sono dalle logiche del male. È il sacerdote che dopo la costruzione del centro Padre Nostro, si batte per aprire una scuola, luogo per sottrarre i più piccoli alla miseria e all’ignoranza. È il martire che si è speso per catturare guizzi di felicità in scenari desolati come «fili d’erba che squarciano il cemento».
Palermo, la tutta-porto per i greci, accoglie questa storia, immettendosi nel racconto come indiscussa protagonista: «Città di luce e di lutto, di paradiso in una via e inferno girato l’angolo». Si impone con la sua contraddizione determinando tutti i personaggi.
Una sfida per l’oggi
D’Avenia, classe 1977, attinge alla cronaca senza sfociare nel cliché del romanzo antimafia. Anzi. Il suo è un racconto di formazione, dove dalla crescita dei suoi personaggi sa coglierne l’universalità. Federico è uno dei tanti – o forse pochi – ragazzi che si impegnano a portare la luce del Vangelo dove il buio predomina. Tanti coetanei preferiscono la posizione più comoda dei compagni di classe del protagonista. Come Gianni e gli altri, che si sottraggono all’invito a dare una mano a Brancaccio con una “litania dei luoghi comuni”.
Come si fa ad accendere la passione e il desiderio di spendersi per gli altri nei ragazzi? L’autore risponde con decisione: «Con l’esempio. 3P (padre Pino Puglisi, ndr) lo faceva facendo bene il proprio lavoro di insegnante e di sacerdote. La passione si accende solo quando l’altro desidera qualcosa che tu mostri di avere. Se parlo con entusiasmo di un libro i miei alunni lo leggono, se lo do come compito di lettura con scadenza e verifica, fingeranno di leggerlo e scaricheranno la sintesi da internet. È così per tutto. Non occorre comandare, ma testimoniare».
Una distanza geografica piccolissima ma culturalmente infinita separa il cuore di Palermo da Brancaccio. Come in tante altre città, il prof. D’Avenia spiega come ricongiungere questi spazi: «Smettendola di tenere gli occhi chiusi. Tutti amano la famosa frase del Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Senz’altro è vera, ma ritengo sia altrettanto vero che l’essenziale è visibile agli occhi, basta non volgerli dall’altra parte. L’altro giorno pioveva a dirotto, tutti torvi e di fretta. Ho visto una signora anziana che si chinava su una mendicante seduta per terra e le offriva della frutta che aveva appena comprato. Quella signora aveva occhi. Noi altri no. Solo amando si accorciano le distanze».
Quella lezione sull’amore che aveva ascoltato da alunno, ora la insegna come maestro. Non solo ai suoi liceali. I suoi romanzi diventano una cattedra ideale da cui educare i lettori, le pagine dei libri insegnamenti di cui i suoi allievi di tutte le età hanno davvero bisogno.
3P, Padre Pino Puglisi: cenni biografici del primo martire di mafia
Don Giuseppe Puglisi nasce nella borgata palermitana di Brancaccio, il 15 settembre 1937. È ordinato presbitero il 2 luglio del 1960. Dopo aver svolto il ministero pastorale in diverse comunità e aver seguito numerosi movimenti – tra cui Presenza del Vangelo, Azione cattolica, Fuci – è nominato parroco di San Gaetano, a Brancaccio, il 29 settembre 1990. Tre anni dopo inaugura in centro “Padre Nostro”, punto di riferimento per i giovani e le famiglie del quartiere. Collabora con i laici dell’Associazione Intercondominiale per rivendicare i diritti civili della borgata, denunciando collusioni e malaffari. Viene ucciso sotto casa, il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. Il 25 maggio 2013 don Pino Puglisi è beatificato al “Foro Italico Umberto I” di Palermo. È il primo martire di mafia.
(Punto Famiglia)