Il dramma del Nicaragua
Mons. Silvio José Báez racconta la difficile situazione della Chiesa in Nicaragua. Il vescovo ausiliare di Managua, nell’aprile del 2019, su invito di papa Francesco ha dovuto lasciare il Paese perché la sua vita era in pericolo.
di Antonietta Abete
Non vorrei un altro Vescovo morto in America Latina». Con queste parole, nell’aprile del 2019, papa Francesco ha chiesto a mons. Silvio José Báez, vescovo ausiliare di Managua, capitale del Nicaragua, di lasciare il Paese perché la sua vita era in pericolo.
Nel 2018, dopo anni di ingiustizie e violazioni di ogni diritto umano, il governo del presiedente Daniel Ortega aveva varato una riforma sulla previdenza sociale che aumentava i contributi da pagare e riduceva le pensioni.
È mons. Báez, in una lunga intervista, a spiegarci quello che è accaduto: «Per la prima volta, il popolo ha cominciato a protestare, ci sono state delle manifestazioni come non si erano mai viste prima. Ma il governo, invece di ascoltare la reazione della gente per trovare delle soluzioni, invece di approvare riforme democratiche, ha scelto la strada della repressione violenta.
Attraverso forze di polizia e paramilitari ha armato i civili, creando veri e propri mercenari ai quali ha pagato armi per aggredire e uccidere la popolazione civile». Fino ad oggi si contano più di 600 prigionieri politici, oltre 400 persone assassinate e più di 30 mila hanno scelto l’esilio in altri paesi.
La riforma del sistema pensionistico è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso in un Paese in cui è impossibile separare l’identità e la missione della Chiesa da quello che la Repubblica del Nicaragua vive a livello sociale e politico. Nel 1979 è stata rovesciata l’ultima dittatura del secolo scorso, quella di Anastasio Somoza Debayle, con la presa del potere da parte del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale che ha governato il Paese fino al 1990.
Racconta mons. Báez: «La rivoluzione produsse una grande speranza, sembrava che finalmente il Continente latino-americano avesse trovato una terza via, tra il capitalismo e la sinistra comunista. Rivoluzione che fu colta dal mondo intero, anche dalla Chiesa, come un progetto sociale e politico di grande speranza, fondato sulla giustizia sociale». Ma tra il Fronte Sandinista, la rivoluzione cubana e l’ideologia marxista vi era un legame innegabile.
Per questo, dal 1980 fino al 1990, il Nicaragua ha sofferto il tentativo di stabilire un regime simile a quello di Cuba, con un governo totalitario che ha annullato tutte le libertà pubbliche e il rispetto delle leggi. Dieci anni di violenza e repressione, e una recessione economica terribile.
Il Paese stava per crollare quando, nel 1990, Daniel Ortega, che è l’attuale presidente della Repubblica del Nicaragua, ha accettato di andare ad elezioni libere e democratiche. Sono seguiti 10 anni di governi democraticamente eletti ma che non hanno saputo interpretare l’anelito di giustizia e di libertà del popolo. Così il malessere è ritornato. Nel 2006 Daniel Ortega si è candidato alla Presidenza e, in una situazione non molto chiara, ha vinto le elezioni. Tornato al potere, ha cominciato a smantellare tutte le istituzioni democratiche del Paese e il governo, poco alla vota, si è consolidato come una nuova dittatura.
«Da questo momento – aggiunge mons. Báez – Ortega cambia strategia politica e inizia a presentarsi come un governo cristiano. Comincia una manipolazione del linguaggio e della religione per sottomettere un popolo maggioritariamente credente». Cresce anche la corruzione. L’aiuto economico del Venezuela, più di 4 miliardi di dollari destinati alla cooperazione internazionale per il popolo del Nicaragua, vengono “deviati” per la famiglia governante. «Non hanno mai reso conto dell’utilizzo di questo denaro; e questo spiega il potere economico e militare che il regime ha in questo momento».
Nasce così nel 2018 la protesta del popolo a cui seguono mesi di violenza.
Per la Chiesa, in quel momento, si è aperta una situazione nuova, difficile e delicatissima. «Le persone aggredite e uccise erano la gente delle nostre comunità. E hanno cercato la Chiesa, hanno cercato in noi appoggio, una parola di consolazione, protezione. Abbiamo aperto le porte per accogliere le persone e curare i feriti. Ma in quel momento il governo ci ha chiesto di essere mediatore di un dialogo nazionale. Ci siamo trovati in una situazione molto scomoda: dovevamo essere, per quanto possibile, neutrali, senza dimenticare la solidarietà e la vicinanza alla nostra gente».
Questo ha prodotto una rottura, una freddezza tra il regime e la Chiesa: «Ci hanno accusato di un colpo di Stato, ci hanno chiamato criminali, terroristi. Come se i Vescovi, i preti o la Chiesa cattolica in generale fosse stata la promotrice di questo movimento di protesta spontanea. In questo contesto, ho ricevuto diverse minacce di morte fino al punto che il Santo Padre mi ha chiesto di uscire dal Nicaragua per proteggere la mia vita».
Mons. Silvio José Báez continua a seguire, da lontano, quanto accade in Nicaragua con la speranza di poter rientrare presto nel Paese. Alle numerose preoccupazioni si aggiungono anche quelle legate al Covid-19 che sta mietendo tante vittime in America Centrale. Fin dall’inizio della diffusione del virus il governo di Daniel Ortega ha ignorato le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e boicottato il suggerimento di rimanere in casa, giudicandolo come una proposta tesa a destabilizzare il Paese, avanzata da settori dell’opposizione nata in seguito alla sollevazione popolare dell’aprile 2018.