Quale diritto alla vita?
Francesco Ognibene riflette sui temi dei diritti e della dignità della vita per l’Ultima, editoriale di chiusura di Insieme.
di Francesco Ognibene*
Dignità, diritti, libertà, vita… A parole di questo peso, che costituiscono l’architrave della nostra civiltà, siamo abituati ad attribuire un signifcato preciso e univoco, certamente ispirato all’anima cristiana del Paese – ancora attiva, nel profondo, malgrado le apparenze – ma riconosciuto come valido per tutti. Dunque, se parlo di dignità dell’uomo penso a un continuum che ne attraversa tutte le condizioni di vita; se di diritto mi riferisco a quel che spetta per natura a chiunque, sempre e senza distinzioni; se di libertà, alla condizione nativa di ogni essere umano sempre orientata a quella vita che costituisce il fondamento di tutti i principi.
Ma da molti sintomi è ormai chiaro che la percezione sociale di questi signifcati si è andata oscurando per l’azione di centrali mediatiche, culturali e politiche, eredi di tradizioni dichiaratamente alternative a quella cristiana, che per neutralizzare questa nelle coscienze hanno ingaggiato una vera guerra ideologica. Il rovesciamento dei signifcati di termini-concetto fondativi della nostra società come vita o dignità è l’esito di questa scritianizzazione forzosa, che si nutre di una narrazione della realtà a senso unico, pregiudizialmente negativa, scettica e al dunque nichilista.
Tutte le rivoluzioni fanno perno sulla costruzione di un nuovo dizionario (fa scuola «1984» di George Orwell), al quale si affida il compito di portare nelle teste e nei cuori quella conversione inavvertita alla nuova religione secolare che sarebbe impossibile da realizzare con la semplice esposizione dei concetti per come sono intesi, o con diktat del potere. Per capirci: se s’intende che la disabilità sia una condizione che fa perdere la dignità, o che la malattia inguaribile è causa di esercizio della libertà personale fno a farsi dare la morte, o ancora che il dolore ritenuto insopportabile possa originare il diritto di morire, è evidente che siamo di fronte – come accade – a un rovesciamento di significati ritenuti intoccabili.
È l’esito estremo della cultura che sostituisce l’onnipotenza misericordiosa di Dio con l’arbitrio e la solitudine dell’uomo. Alla centralità indiscussa della vita si antepone la morte come diritto. E da tutore della persona umana lo Stato viene trasformato in asettico notaio di libertà individuali, con medici che per conto del Servizio sanitario nazionale sono chiamati a erogare tra le loro prestazioni cliniche anche la morte.
Come non vedere in questa china imboccata anche dal nostro Paese, recidendo la sua radice samaritana e solidale, il motore che ci sta portando dritti a una legge che depenalizza il suicidio assistito e che dunque apre all’eutanasia, differente da quello solo per metodo e non certo per sostanza? Coscienze informate e consapevoli possono tanto, perché l’anima del Paese è ancora quella plasmata da due millenni di compagnia quotidiana del Vangelo. Crederci, non arrendersi, testimoniare non solo con le opere ma anche con le idee: ecco il dovere che ci attende.
*Francesco Ognibene è giornalista professionista, caporedattore dal 1991 ad Avvenire, si occupa al desk centrale di bioetica, informazione religiosa, pagine diocesane, mass media e giovani. È il responsabile delle pagine dei Porta Parola. Nel 2018 è stato insignito del Premio Euanghelion.