Intervista esclusiva al cardinale Pietro Parolin
“La comunione è un dono da chiedere allo Spirito”, così ha affermato il Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, durante l’intervista rilasciata ad Insieme e pubblicata sul numero in distribuzione.
di Salvatore D’Angelo e Antonietta Abete
A colloquio con il cardinale Pietro Parolin, che lo scorso 13 ottobre ha preso parte alla 42esima convocazione regionale del Rinnovamento nello Spirito Santo della Campania, nell’area mercatale Pagani-Nocera. Circa 10mila le persone presenti.
Eminenza, quanto bene fanno i movimenti alla Chiesa, in questo caso il Rinnovamento nello Spirito Santo. Ci sono dei confini da non travalicare per salvaguardare l’unità?
Il Rinnovamento Carismatico Cattolico, più che un movimento ecclesiale, è una corrente di grazia, come l’ha chiamato il Santo Padre Francesco. Negli ultimi cinquant’anni, si contano a milioni le persone nel mondo che hanno scoperto una fede viva grazie al Rinnovamento. In Italia, riconosciuto dalla Conferenza Episcopale, esso si pone al servizio del Popolo di Dio; ben armonizzato nella pastorale e docile alla guida dei Pastori, può essere ancora un seme molto fecondo nel campo della Chiesa. Si tratta di un’opera comune che, credo, possa essere sempre meglio coordinata, ad esempio da un’istanza nazionale alla quale tutte le realtà carismatiche potranno far riferimento, come il Servizio Nazionale di Comunione, in via di costituzione. Similmente, su richiesta del Santo Padre, è stato costituito un servizio a livello internazionale: CHARIS (Catholic Charismatic Renewal International Service).
Quali scelte e atteggiamenti possono favorire una maggiore comunione ecclesiale tra i diversi carismi? Se a livello universale si marcia di pari passo, nei contesti più piccoli si riscontrano, a volte, velocità differenti.
La comunione è un dono da chiedere allo Spirito Santo, poiché è Lui che, rendendoci fratelli e sorelle, opera la vera comunione e ricompone le diversità in unità, come ama dire Papa Francesco. Una chiave per promuoverla è quella del servizio. Chi agisce come servo lascia spazio agli altri, poiché il servizio è autentico quando ricerca il bene del fratello e non la realizzazione dei propri fini. Un’altra chiave per la comunione è la preghiera, nutrita dalla Parola di Dio e radicata nei Sacramenti: solo una regolare preghiera personale e comunitaria ci permette di accogliere la chiamata a essere «una sola cosa», come Egli desidera (cfr Gv 17,21). Un ulteriore atteggiamento che può favorire una maggiore comunione ecclesiale tra i diversi carismi è la chiara consapevolezza che i carismi non sono proprietà di chi li riceve. Ogni carisma è dispensato dallo Spirito non per l’affermazione personale ma a beneficio dell’intero popolo di Dio, per l’edificazione della Chiesa. Devono, dunque, essere vissuti con umile spirito di servizio, senza pretese di superiorità spirituale sugli altri, a beneficio dell’intera comunità ecclesiale, con la feconda docilità di chi è disponibile a crescere e maturare mai per conto proprio, ma nell’insieme.
Come ripartire dall’annuncio alle persone che ci vivono accanto, per una missione che tocchi le famiglie, i vicini, le case dei nostri quartieri dando concreta attuazione a quanto il Papa ci dice nel Messaggio Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo in missione nel mondo?
Interrogarsi sulla missione e sull’annuncio della fede non significa collocarsi primariamente sul piano dell’agire o su quello delle strategie pastorali. In maniera significativa, il Santo Padre lo ha sottolineato già dal titolo del Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale, Battezzati e inviati: la radice dell’indole missionaria della Chiesa e di ogni cristiano è il Battesimo. La missione vera è dunque quella che attinge alle profondità dell’essere cristiano, che è segnato dalla Pasqua del Signore: si tratta di «riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare», così che ciascuno possa esclamare: «Io sono una missione su questa terra» (Evangelii gaudium, 273). Questo “marchio a fuoco” è un dono gratuito di Dio, che il credente riceve senza alcun merito. A ciascuno spetta però il compito di ravvivare tale fuoco, perché dispieghi tutto il suo calore e la sua luce. Un annuncio del Vangelo che voglia essere credibile e risuonare autentico deve fondarsi su un cambiamento personale di vita. Non è forse questo che suscitava conversioni nelle prime comunità cristiane, come ci dicono gli Atti degli Apostoli e le vicende dei primi cristiani? Non è forse vero che la vita nuova, testimoniata con pace e gioia anche in periodi di persecuzione, è risultata enormemente più evangelizzatrice di tante tecniche “del mondo”?
Nel messaggio per la Settimana liturgica nazionale ribadisce per la liturgia un “ruolo insostituibile nella e per la Chiesa”. Il nostro vescovo, monsignor Giuseppe Giudice, negli Orientamenti alla Diocesi chiede di “rieducare alla semplicità, alla sobrietà, ricordando che nell’azione liturgica si esprime il noi che ci fa Chiesa bella e missionaria”. È questa la strada per riuscire a rimuovere gli orpelli che a volte sembrano appesantire alcune nostre Celebrazioni e aprirci alla Missione?
Mi piace ricordare quanto i Vescovi italiani, nella Nota pastorale “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia” (30 maggio 2004), scrivevano al riguardo: «C’è bisogno di una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini». Che cosa s’intende per “bellezza della liturgia”? Con questa espressione non si fa riferimento a qualità estetiche, sebbene anche queste abbiano una loro importanza nel trasmettere la bellezza del sacro, ma ad una questione di contenuto spirituale. La bellezza della liturgia è, infatti, la bellezza di offrire la persona vivente di Gesù e il suo dono pasquale, di comunicarli alla vita della gente. Certo, c’è bisogno di portare alla luce questa bellezza, come fa un archeologo dissotterrando un tesoro antico. Abbracciare la bellezza della liturgia non è in contrapposizione con la missione; al contrario, la deve favorire. Il V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze del 2015 ci ricordava che la preghiera è il primo atto di una Chiesa in uscita, come la preghiera di Gesù che si appartava in luoghi deserti era il primo atto del suo ministero quotidiano di annuncio del Vangelo. La celebrazione, infatti, vede protagonisti due attori principali, Dio che santifica e l’uomo che glorifica; è manifestazione del “noi” ecclesiale, di un popolo scelto da Dio e riunito insieme, che rende culto al Signore, nell’ascolto della sua parola e nello spezzare il pane, è inviato ad andare e proclamare ovunque le sue meraviglie.
Ogni cristiano è chiamato ad essere santo e la vera santità, ci ricorda papa Francesco, si manifesta in una vita gioiosa. Perché la Chiesa incontra tanti ostacoli nell’annunciare una verità così semplice?
San Paolo dice che la gioia è un dono dello Spirito Santo che, insieme ad altri, testimonia la vita nuova che il credente ha ricevuto in dono (cfr Gal 5,22). Essa, però, non è da confondersi con la semplice allegria, che occupa, per così dire, un livello più superficiale, tanto che esclude le fatiche e le prove della vita. La gioia che la Chiesa annuncia è invece sempre nel segno della Pasqua. È un frutto di vita risorta che ha conosciuto la passione sull’albero della croce; è simile alla situazione della partoriente – l’immagine è di Gesù stesso – che vive un vitale intreccio di sofferenza e felicità. Alla luce di ciò, si può forse comprendere in ciascuno una certa resistenza ad accogliere il Vangelo della gioia, che è fondato sulla certezza che l’amore di Dio è più forte di tutte le possibili sventure della vita. E che la gioia vera deriva perciò da una misura alta di vita, che il Papa non esita a chiamare santità. Per questo, in continuità con la bella lettera Gaudete in Domino di san Paolo VI, ha recentemente indirizzato a tutti i cristiani un’esortazione sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, dal titolo Gaudete et exsultate. Con questo documento, che è come una lettera accorata di un padre ai figli, ha inteso mostrare come la via della santità è possibile per tutti, perché «lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio» (n. 6).