A 25 anni dall’uccisione di don Diana
Don Grimaldi (ispettore cappellani): don Peppe Diana, “un sacerdote coraggioso e generoso, testimone per i nostri tempi”
“Riflettere sul martirio di don Peppino Diana vuole essere un messaggio per risvegliare le coscienze e dire con forza che nessuno è padrone della vita dell’altro, nessuno può togliere e calpestare la vita di un altro essere umano. Ma, allo stesso tempo, è anche una giornata di preghiera per chiedere al Signore il dono della nostra conversione e il cambiamento della nostra vita”. Nasce con questo spirito l’iniziativa promossa dall’ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, che ha scritto una lettera a tutti i cappellani invitandoli a celebrare negli istituti penitenziari, una giornata in memoria, di riflessione e di preghiera, dedicata a don Peppe Diana. Si avvicina, infatti, il 25° anniversario della sua uccisione (19 marzo 1994) per mano della camorra, mentre si apprestava a celebrare la messa nella sua parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Un invito, quello di don Grimaldi, che parte dalla sua conoscenza personale di don Diana, suo amico di studi nel seminario di Aversa. L’ispettore generale dei cappellani parteciperà anche all’incontro “Per testimoniare la verità e la giustizia”, che si terrà lunedì 18 marzo, nel carcere di Secondigliano, a Napoli, a cui interverrà, tra gli altri, il vescovo di Aversa, mons. Angelo Spinillo.
Don Raffaele, quando ha conosciuto don Diana?
Siamo stati in seminario nello stesso periodo: quando ci siamo conosciuti, io frequentavo il quarto ginnasio e Peppe il primo liceo. Era anche il mio prefetto. La nostra amicizia è nata proprio lì, in seminario. Ho di lui un bel ricordo: era un giovane scherzoso, vivace, schietto, ma anche irrequieto. Eravamo in seminario, ma il suo cuore era già proiettato al di là, molto attento anche a quello che accadeva fuori dal seminario, alle problematiche sociali, ma a quell’epoca i seminari erano più chiusi, quindi spesso entrava in conflitto con i superiori quando proponeva esperienze forti. Al tempo stesso, però, era un giovane di grande preghiera: lo ricordo così preso durante le adorazioni in comunità. Prima del sacerdozio, ha vissuto esperienze di forte spiritualità in comunità monastiche. Curava la sua vita spirituale anche nella contemplazione: quante volte l’ho visto in cappella da solo a pregare!
Che sacerdote è stato don Peppe?
Coraggioso, impegnato a fasciare le molte ferite degli uomini e nel recupero dei giovani, ai quali dedicava tutto il suo tempo e tutte le sue energie giovanili per servire la Chiesa. Ma non solo: dopo essere stati ordinati sacerdoti, nel 1992 io fondai il centro Regina Pacis a Giugliano e don Peppe nella sua parrocchia accoglieva poveri e immigrati. Sull’attenzione alle fasce più deboli era molto attivo, sensibilizzando anche la comunità e in particolare educando i giovani al servizio, all’accoglienza, all’amore per gli ultimi, sull’esempio di Gesù. In quel periodo andavamo insieme a cercare, in cascinali abbandonati, immigrati soli e disperati, che vivevano in condizioni precarie, senza corrente, per portare loro aiuti concreti e conforto.
C’è poi l’impegno contro la camorra…
Da parroco, a Casal di Principe, si è trovato a fare i conti con la drammatica pervasività della camorra nella vita del paese. Negli anni ’90 a Casal di Principe, ma anche nel resto della Campania, c’erano faide e ammazzamenti, si viveva molto male, nel terrore, era terra di nessuno. L’impegno contro la camorra, quindi, per don Peppe è sempre legato al suo essere sacerdote, al suo essere pastore in mezzo alle pecore, e alla sua sensibilità. Il famoso documento ‘Per amore del mio popolo non tacerò’ nasce proprio per mettere un argine alla violenza.
Cosa ricorda del giorno della morte?
Quando quella mattina del 19 marzo 1994, si diffuse la tragica notizia della sua morte cruenta, fu veramente uno choc. Subito dopo l’uccisione di don Peppe con alcuni confratelli di Giugliano ci recammo nella parrocchia di San Nicola a Casal di Principe: il suo corpo non c’era più, ma ricordo ancora quella macchia enorme di sangue a terra in sagrestia. Per me fu terribile. Nel 1993 avevo iniziato il mio impegno come cappellano nel carcere di Secondigliano, ma per la morte del mio amico andai in crisi, non volevo andare più in carcere perché sapevo che in quella realtà c’erano persone che avevano ammazzato e non riuscivo a sopportarlo. Mi ha aiutato, allora, il mio padre spirituale.
Cosa può dire oggi una figura come quella di don Peppe ai detenuti?
Una figura come quella di don Diana può essere di sprone a chi si trova in carcere e ha compiuto delitti o violenze, distruggendo le vite degli altri, per prendere coscienza dei propri errori. Parlare di don Peppe come sacerdote, uomo di fede, generoso verso gli altri attraverso il dono di sé, come uomo di verità, che ha subito il martirio, è un modo per far riflettere sul male compiuto, mettere a nudo le proprie povertà e invitare al cambiamento interiore. Nelle carceri non dobbiamo andare a raccontare favolette, ma avere la forza e il coraggio di presentare figure forti e belle come quella di don Peppe, un testimone per i nostri tempi, capace, come è stato, di dare la vita per il Vangelo, un esempio di vita buona che aiuta a far crescere nelle persone, anche in quelle che si sono macchiate di gravi crimini, l’amore per Dio e per i fratelli.
Gigliola Alfaro (Sir)