1. Home
  2. Diocesi
  3. “Che ne è del nostro sacerdozio?”

“Che ne è del nostro sacerdozio?”

Omelia Messa Crismale Giovedì Santo, 29 marzo 2018 Carissimi, il Giovedì Santo ci riporta nel Cenacolo, luogo teologico della nostra nascita sacerdotale e, facendoci ripuntare gli occhi sul Cristo, ci unge con l’Olio di letizia e ci invia nel mondo…

Omelia Messa Crismale Giovedì Santo, 29 marzo 2018

Carissimi,

il Giovedì Santo ci riporta nel Cenacolo, luogo teologico della nostra nascita sacerdotale e, facendoci ripuntare gli occhi sul Cristo, ci unge con l’Olio di letizia e ci invia nel mondo a portare a tutti l’annuncio di gioia, specialmente ai poveri e agli sfrattati dalla vita.

Saliamo al Cenacolo, come ogni anni, come Chiesa, forse con i passi stanchi o i piedi storpiati – come diceva S. Agostino – dal peccato, ma ben sapendo che Egli rende lieta la nostra giovinezza con il soffio dello Spirito, che continuamente ci ricrea.

Saliamo insieme, quasi dandoci la mano e sorreggendoci a vicenda: Vescovo, Presbiteri, Diaconi, Seminaristi, Religiosi e Religiose, Fedeli laici, per rigustare la bellezza del dono posto nelle nostre mani, che è un mistero sempre da accogliere e adorare.

Non saliamo da soli, perché potremmo smarrirci, ma come Chiesa, per essere amati ed amare, ponendoci domande cocenti su di noi e sul nostro tempo, complesso e confuso, ma sempre stupendo, perché bagnato dal sangue prezioso di Cristo.

Ci poniamo delle domande. Che ne è del nostro Sacerdozio? Ci chiediamo – e mi chiedo – È una funzione o un servizio? Siamo funzionario del sacro o consacrati al Signore? E la domanda si fa più incalzante. Che ne è della vita spirituale? Messa, confessione, padre spirituale, ritiro ed esercizi spirituali, liturgia delle ore, rosario e adorazione…Sono parole antiche, in disuso, o sono la trama e l’ordito per tessere continuamente un tessuto spirituale, che deve essere imbastito e tante volte rammendato. Vita spirituale, cioè dello Spirito. Vita appassionata, intimità con il Signore, o semplici atti senz’anima, semplicemente per sbarcare il lunario? È bene, mentre siamo nel cenacolo, attorno al nostro Maestro, che ci chiediamo qual è lo stato, il livello, la condizione della mia vita spirituale.

Che ne è dei nostri Presbitèri?

Come ci custodiamo per custodire l’altro? Come prevengo qualche ferita, o attendo semplicemente la caduta del fratello per affossarlo ancora di più?

Che ne abbiamo fatto di quel gesto stupendo dell’ordinazione sacerdotale, quando abbiamo imposto le mani sul capo del consacrato per accoglierlo nella famiglia presbiterale? In quel momento, con un gesto semplice, gli abbiamo detto: “Non ti preoccupare, ci sono anche io. C’è la famiglia presbiterale”. Dov’è, in questo tempo confuso, il rispetto per il padre? Il rispetto per l’autorità, per la famiglia?

Che ne è del nostro amore alla Chiesa? Qui la domanda si fa scottante, e speriamo, per alcuni, non imbarazzante.

«Sì, gli uomini che compongono la Chiesa sono fatti dell’argilla di Adamo. La Chiesa è santa in se stessa, inferma negli uomini che la appartengono, ma ciò non altera la sua realtà misterica – la Chiesa è altro rispetto a qualsiasi altra istituzione, perché ha dentro di sé il mistero eucaristico –. Ma invece di provocare scandalo e disprezzo, la sua miseria dovrebbe produrre un amore maggiore, come quello che portiamo alle persone care quando sono ammalate. Non l’ameremo forse di più la nostra madre proprio perché sofferente? – Un amore alla Chiesa, un amore serio, che non giustifica le ferite, ma cerca di guarirle – …aprite gli occhi e osservate quante luci di carità irradiano dal suo mantello e dal suo abito – il mistero della Chiesa, la bellezza della Chiesa, ne dovremmo parlare sempre in ginocchio, come si parla della mamma e dell’innamorato –. Un abito non tutto ugualmente splendido e nuovo, un abito antico e tanto umano, che sempre ha bisogno di essere riparato e rinnovato, ma è tutto smaltato dalle gemme scintillanti della presenza di Cristo» (Paolo VI). L’amore alla Chiesa deve essere al primo posto nella nostra educazione sacerdotale.

E che ne è del nostro amore al mondo, a questo mondo, per il quale – fra poche ore – Dio consegnerà ancora il Figlio? Quel Figlio che offerto una volta per sempre, nuovamente si offre su tutti gli altari del mondo. Dove c’è un povero prete che celebra la Messa, si rinnova il mistero del Calvario, il miracolo della Pasqua.

A cinquant’anni da quella colluvie culturale che fu il ’68 – con le sue luci e le sue ombre – è bene ritornare ad una voce che, inascoltata e contrastata, si levò alta e adamantina nella confusione generale. Quanti lasciarono l’abito sacerdotale, quanti sono entrati in una dimensione che ancora oggi non li rende tranquilli e sereni.

Mi riferisco ora alla voce del beato Paolo VI, fra poco Santo, con la pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae, in data 25 luglio 1968. La vita non si tocca, la vita non si compra. Viene da un Altro e ritorna ad un Altro. Come è attuale questa frase.

La Chiesa, madre e maestra, con il Concilio Vaticano II, aveva prevenuto ed anticipato la crisi del ’68 che chiedeva la fantasia al potere, una libertà malata, anteponendo ad esso il servizio e la santità.

Devono tornare profetici per noi gli aggettivi di Paolo VI: se vogliamo parlare di amore coniugale – e approfondiamo l’Amoris Laetitia – e di ogni amore vero, dobbiamo sempre riferirci ad esso come un amore Umano – Totale – Fedele – Fecondo, aggettivi che oggi è bene estendere anche alla vita sacerdotale e pastorale. La nostra vita di Vescovi, di Preti, deve essere profondamente umana, perché dove l’umano si realizza il divino è veramente presente. Un amore totale, perché l’uomo non è spezzettato, come vuole la cultura di oggi. L’uomo non è, come ancora vuole la guerra di oggi, una crisi e una lotta tra cultura e natura. L’uomo è una totalità. Deve essere un amore fedele. Dio è fedele, noi dobbiamo rispondere alla fedeltà di Dio, nel matrimonio, nella vita religiosa, nella vita sacerdotale. Un amore fecondo: non lo sono solo gli sposi, dobbiamo esserlo anche noi dal punto di vista spirituale. Quando non si producono comunità, quando non nascono nuove comunità, quando intorno a noi non c’è la gente semplice, ma semplicemente un gruppetto, che ci batte le mani, il nostro sacerdozio non è fecondo. Umano – Totale – Fedele – Fecondo.

E che ne è del Concilio? È grazie a Papa Francesco se oggi la Chiesa riprende il grembiule del Giovedì Santo, diffidando sempre di più dai grembiulini di cui alcuni spesso si cingono per offendere ed imbrattare il volto della Chiesa, mia madre. Questo avviene a tutti i livelli, con tante lobby, grembiulini di una realtà che non ci appartiene e che imbrattano e distruggono il volto della Madre Chiesa. Come Chiesa non possiamo camminare da soli, il nostro territorio è ricco, attende da noi una risposta profetica. Siamo la Chiesa del Signore, non siamo un’organizzazione, non siamo la Magistratura, non siamo i giornali. Siamo la Chiesa del Signore, pellegrina in questo tempo, amata da Lui, sostenuto da Lui e – se c’è bisogno – sferzata da Lui.

Carissimi, ritorniamo a fissare i suoi occhi per trovare insieme la sorgente della comunione e della missione. Se c’è una sofferenza nel cuore del Vescovo è quando si parla male della Chiesa. È quando nei nostri gruppi, nelle nostre comunità si parla male del Papa, del Vescovo, delle nostre realtà. Amore sincero alla Chiesa, fedele, silenzioso. Un amore sofferto, vero, perché per questa Chiesa, Cristo ha dato la sua vita, sapendo coniugare – ed è la lezione della Visita Pastorale, ringrazio già le due comunità, che ho visitato – lo sguardo parrocchiale con quello diocesano, in un vitale rapporto di sistole e di diastole, per avere un cuore che ama, e che ama in sintonia con il cuore di Cristo. Non c’è la parrocchia contro la Diocesi né la Diocesi che non è fatta dall’unione delle parrocchie. Insieme, in un rapporto di un cuore che si allarga fino alle dimensioni del mondo.

E passiamo insieme da un’attenta lettura dei segni dei tempi, al tempo dei segni, dei quali non dobbiamo abusare o utilizzarli in modo indiscriminato, ma ridare ad essi il significato primigenio ed autentico.

E c’è un segno, semplice e vero, ma sempre da recuperare, atteso e capace di essere letto da tutte le culture e da tutti i tempi: il segno della Carità, della stima, del volersi bene, dell’accettarsi per essere collaboratori della gioia di ognuno, essere stimati dalla gente, affinché si rinnovi l’esclamazione delle prime comunità: Guardate come si amano!

Solo amando il territorio, il nostro tempo e amandoci, si può evangelizzare. Non amando, tutto scivola e tutto è scritto sulla sabbia; amando, l’evangelizzazione diventa olio che impregna e profuma la nostra vita. Quell’olio che tra poco sarà benedetto e consacrato e raggiungerà – come olio fluente – le vostre comunità.

Ci affidiamo a Colei che è salita al Calvario per accompagnare il Figlio, ma è anche ridiscesa per cercare e accompagnare i figli nei tornanti della storia e sostenerli, nell’oscurità della croce e nell’abbaglio della luce – Maria è sempre con noi – fino all’incontro con Lui, cercato, amato e benedetto nei secoli.

 

Amen

 

+ Giuseppe, vescovo

Menu