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Discorso alla Città 2017

DISCORSO ALLA CITTÀ – 30 APRILE 2017   …e già splendevano le luci del sabato (Lc 23,54): alcune suggestioni dei nostri giorni nella luce del Sabato Santo.     “Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme…

DISCORSO ALLA CITTÀ – 30 APRILE 2017

 

…e già splendevano le luci del sabato (Lc 23,54):

alcune suggestioni dei nostri giorni nella luce del Sabato Santo.

 

 

“Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia”
 (G. Leopardi, Il sabato del villaggio)

 

 

 

 

Introduzione

Signore e Signori, Autorità, Chiesa pellegrina in Nocera Inferiore-Sarno, ancora una volta, nel primo giorno del novenario in preparazione alla festa di San Prisco, primo Vescovo e Custode della nostra Diocesi, siamo convocati nella Chiesa matrice, la Cattedrale, per metterci in ascolto del Magistero episcopale, posto a servizio della nostra vita e della terra dell’Agro.

È un appuntamento che, come Vescovo, ho voluto dall’inizio del mio ministero in questa santa Chiesa.

È l’occasione gradita per parlare a tutti, per ribadire che la Chiesa vive e soffre nella città degli uomini; per ricordare che il Vescovo, come sentinella e specialmente rimanendo in ginocchio, è chiamato a vegliare come padre sulla vita di ciascuno, anche di chi non crede, non spera, non ama, o è indifferente.

È il momento in cui la Chiesa diocesana si apre alla Città per intercettare le ansie di ogni uomo e per dire ad ognuno la simpatia e l’attenzione della comunità cristiana, che è immersa nella comunità civile.

È, ancora di più, il momento in cui il Vescovo incontra le Istituzioni e, ribadendo il rispetto dei ruoli, ricorda che il nostro ministero-servizio, laico o ecclesiale che sia, è finalizzato al bene dell’uomo e di tutto l’uomo, secondo la felice espressione della Populorum Progressio, enciclica profetica del Beato Paolo VI, di cui celebriamo quest’anno il 50° anniversario della pubblicazione (26 marzo 1967).

Come sempre, sappiamo che siamo sostenuti dalle oranti, dagli oranti, dai giovani e dai sofferenti che, con la preghiera e l’offerta della vita, contribuiscono in modo eccellente al progresso della nostra Città e della nostra Terra.

Un saluto a Voi, allora, convenuti nella nostra Cattedrale e un saluto cordiale e sincero a tutti coloro che ci seguono o ci intercetteranno attraverso i vari mezzi della comunicazione sociale, che il Concilio pone tra le meraviglie del nostro tempo, Inter Mirifica.

Da questa postazione, la Cattedra di San Prisco, vedo le luci che si accendono nelle case, nei monasteri, negli istituti religiosi, nelle parrocchie, negli ospedali e case di cura, nei luoghi della cultura e del divertimento, nei presidi della legalità e della sicurezza, lungo le strade, e a tutti vorrei offrire come dono e impegno l’olio della consolazione e il vino della speranza.

Tema

Il tema che ho scelto quest’anno, dopo un tempo di ascolto e discernimento, lo formulo così: …e già splendevano le luci del sabato (Lc 23,54): alcune suggestioni dei nostri giorni nella luce del Sabato Santo.

Un tema che, a prima vista, non sembra essere adatto per un discorso rivolto alla Città, ma sarà mio compito, brevemente, esplicitarlo e tradurlo in modo da farlo diventare significativo per ogni situazione.

Sarà già sufficiente se ci aiuterà a fare una pausa di riflessione, ricordando ad ognuno di noi che, pur rimanendo canne sbattute dal vento, siamo pur sempre canne pensanti.

Nell’anno in cui, come comunità credente, siamo stati invitati a rimeditare la ricchezza dell’Anno Liturgico e della Domenica, mi è sembrato opportuno soffermarmi sul sabato, sulla vigilia, per dire che alla domenica si arriva dopo una sosta e una preparazione vigiliare.

Anche la festa, se non vuole essere sminuita, va attesa, preparata, sognata, vissuta, e mai solo consumata.

È urgente riscoprire la bellezza e l’attualità dello stare insieme quando “tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case, e per le vie si spande; e mira ed è mirata, e in cor s’allegra” (cfr. Leopardi, Il passero solitario).

Articolerei questo mio intervento in tre momenti:

– Il senso, oggi, del sabato santo.

– Il sabato santo in rapporto con la vita; la sofferenza e la morte; la vita sociale e politica.

– Una preghiera a Maria, donna del sabato santo.

 

Il senso, oggi, del sabato santo

Per richiamare il senso, oggi, del sabato santo, mi piace proporvi lo stralcio di un testo di Luigino Bruni, economista, sulla fraternità del sabato santo.

“Il cristianesimo diventa pieno e grande umanesimo finché sa stare (stabat) dentro il sabato santo, senza saltare troppo velocemente dal Golgota al sepolcro vuoto. Se dimentichiamo che dopo il venerdì c’è il sabato (non la domenica), non sappiamo chiamare per nome i nostri dolori, i dolori degli altri, costruiamo domeniche artificiali, e trasformiamo la passione in una finzione (fiction) che non salva nessuno.

È il sabato il giorno della storia umana: il tempo del figlio morto, il tempo delle donne che ungono il corpo di un crocifisso, il tempo degli abbracci.

È solo qui che possiamo veramente incontrare gli uomini e le donne del nostro tempo, ungere le nostre e le loro ferite, piangere con i nostri compagni e compagne di viaggio, imparare la fraternità del Sabato Santo. E poi insieme, attender e sperare in un altro giorno: in quel giorno avverrà che il Signore ti libererà dalle tue pene e dal tuo affanno” (Is 14,3).

 

È il sabato il giorno della storia umana: il venerdì, con il suo sangue e le sue lacrime, è passato; domenica, con i suoi canti, verrà; ed ora noi siamo sospesi in questo tempo vuoto, a-liturgico, nel quale siamo posti con la capacità di sperare, sapendo che si può ricostruire anche dopo le macerie; o di disperare, rinunciando alla domenica che verrà.

È il tempo del silenzio, tempo di ascolto e di preparazione della festa, tempo per piegare i lini e mettere a posto tutto ciò che è rimasto nella stanza della nostra vita, quando, come ricorda l’Apocalisse, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora (Ap 8,1).

È tempo adatto alla riflessione, alla meditazione, al vaglio del pensiero.

È il tempo che, purtroppo, abbiamo eliminato dal nostro tempo, costretti come siamo dalla cultura del tutto e subito, che non dà più spazio al sabato, cioè al pensare e all’interiorità.

Ci può aiutare una densa meditazione di Benedetto XVI, pronunciata a Torino dinanzi alla Sindone, da lui definita Icona del Sabato Santo, il 2 maggio 2010:

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità”.

Il sabato santo in rapporto con la vita

Dinanzi al mistero della vita, un dono e non un diritto a tutti i costi, la domanda può essere: che sarà mai questo bambino? (Lc 1,66).

È la domanda, carica di stupore di Zaccaria che, dinanzi alla vita, esce dal silenzio e sciolta la lingua benedice Dio.

Che sarà mai? deve ritornare ad essere la domanda del sabato santo dinanzi ad ogni vita, anche e soprattutto dinanzi alle stragi, ancora prodotte dalla febbre del sabato sera.

Vuol dire dare fiducia alla vita, ad ogni vita, a tutta la vita, alla vita di tutti e non imprigionarla nella gabbia della paura e delle sole realtà materiali.

Essa, la vita, è sempre oltre, perché la vita è la vita.

Che sarà mai questo bambino? dovrebbe essere nuovamente la domanda della vecchia Europa (come Zaccaria ed Elisabetta anziani) dinanzi al mistero del bambino che nasce, in quell’incontro sempre nuovo e gravido di sorprese di un uomo e di una donna.

Non silenzi imbarazzati, non mutismo, non calcolo, non giochi politici, ma stupore del sabato santo dinanzi a ciò che verrà, sarà, anche se il sepolcro appare sigillato e tutto sembra scrivere la parola fine.

Un’Europa che ha rinchiuso nelle banche il vocabolario del futuro sceglie di non avere più futuro per la vita, né per i suoi figli e né per i figli che vengono da lontano. Sembra essere questa la nostra povertà occidentale: abbiamo riempito la vita di cose, oggetti, e abbiamo svuotato la vita della vita stessa. Prima che il bambino nasca, vogliamo già programmare tutto per lui, accumulando oggetti nella sua stanza, negandogli però il primo diritto, che è la vita stessa.

Se recuperiamo il sabato, dobbiamo forse pensare a ridare vita ai nostri centri storici; con politiche oculate e sagge, dobbiamo renderli di nuovo abitabili, accessibili, umani, belli, investendo sul piccolo, in modo da recuperare le radici e la memoria per accogliere il futuro.

Non l’abbandono, non la fuga, non il degrado, ma il gusto e il bello devono tornare sui tavoli di reali e possibili concertazioni ambientali e paesaggistiche.

E alla vita dare un contenuto, dare senso, colore e calore.

I nostri antenati lo hanno fatto accogliendo il grande dono della fede, e di una fede che si fa storia. Ne sono testimonianze i tanti manufatti religiosi di cui è disseminato il nostro territorio.

Non mi riferisco alle grandi chiese, monasteri, abbazie, ma guardo a quelle chiesette, edicole, piccole strutture che incontriamo lungo la strada. Tante sono abbandonate, in disuso, ma odorano ancora dell’incenso e delle preghiere di chi, prima di noi, ha vissuto, pregato, offerto e amato. È una filiera da riprendere e valorizzare, anche con poco; ma possono ridiventare scrigni di arte e fede, capaci di nutrire la vita, prima che ce li chiedano per aprire pizzerie o altro, o diventino covi di animali selvatici.

Lungo la strada, esse sono pietre miliari che ci ricordano dove approda il nostro pellegrinaggio e che cosa può produrre la passione e la compassione.

Forse, anche così il canto della vita e il racconto dei vecchi ritorneranno a far rivivere le nostre piazzette e i nostri cortili, dove la gente si incontra in una globalizzazione, non solo subita, ma intelligentemente gestita, capace di fare armonia con le disarmonie. E, a partire dal sabato, giorno della speranza, un popolo nuovo darà lode al Signore.

Il sabato santo in rapporto con la sofferenza e la morte

Dinanzi al sabato santo della sofferenza e della morte, ci facciamo aiutare dagli amici di Giobbe:

Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore. (Gb 2,11-13)

C’è un silenzio dinanzi all’evidenza del dolore che si fa compagnia, accompagnamento, carezza; e c’è un silenzio che può far male più di ogni parola. Sempre deve essere un silenzio di ascolto perché il silenzio, qualche volta è tacere, sempre è ascoltare.

Silenzio, non mutismo, del sabato santo, mentre a tratti ritorna il dibattito sul fine vita e sull’eutanasia. Silenzio che aiuta a riflettere quando essa, la vita, è pensata solo come bella e perfetta e si invocano pellegrinaggi verso luoghi che, non avendo aiutato a vivere, aiutano solo a morire.

Silenzio per capire e agire e per aiutare a vivere e a ben vivere, sapendo che la vita rimane il dono più prezioso. A volte è un silenzio imbarazzante, politico, o è un parlare che si riveste di pseudo politica, o è un gridare di chi non ha stretto mai la mano ad un malato terminale che, se aiutato, non chiede mai di morire.

Non si può e non si deve spettacolarizzare la sofferenza e creare per essa effetti speciali, che lasciamo alla vera cinematografia.

Una città, se è vera e ben governata, deve prevedere spazi e tempi per la dignità di chi nasce e di chi muore, affinché come scrive David Maria Turoldo ritorni umano almeno il morire; e una vera città, nel suo groviglio esistenziale, deve lasciare sempre una finestra aperta verso il cielo, la trascendenza.

 

Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”. (Gen 4,8-9).

Essere custode vuol dire, oggi, custodire con rispetto e venerazione il grande dono della vita, dall’alba al tramonto, investendo nella sanità e nelle cure palliative (pallium – Legge 38 del 2010) evitando silenzi politici o chiacchiere da mercato, che fanno dell’altro una merce o un voto in più.

Le prime due domande della Bibbia: dove sei? (Gen 3,9) – dove è tuo fratello (Gen 4,9) ritornano nei nostri sabati e nel sabato della nostra storia e non possono essere eluse. Sono domande per le quali, prima di rispondere, è bene mettere una mano sulla coscienza, come ci insegna la nostra grande tradizione.

 

Il sabato santo in rapporto con la vita sociale e politica

Un bel testo della Bibbia – Giudici 9,7-15 – sulla scelta delle guide nella Comunità, ci può aiutare a riflettere sulle attese della vita sociale e politica:

 

Ma Iotam, informato della cosa, andò a porsi sulla sommità del monte Garizìm e, alzando la voce, gridò: “Ascoltatemi, signori di Sichem, e Dio ascolterà voi!

Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: “Regna su di noi”. Rispose loro l’ulivo: “Rinuncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero gli alberi al fico: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose loro il fico: “Rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, e andrò a librarmi sugli alberi?”.

Dissero gli alberi alla vite: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose loro la vite: “Rinuncerò al mio mosto, che allieta dèi e uomini, e andrò a librarmi sugli alberi?”. Dissero tutti gli alberi al rovo: “Vieni tu, regna su di noi”. Rispose il rovo agli alberi: “Se davvero mi ungete re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano”.

 

“Tendenzialmente cauti nei confronti di coloro che sono al di là della cerchia delle relazioni personali, i giovani nutrono spesso sfiducia, indifferenza o indignazione verso le istituzioni. Questo non riguarda solo la politica, ma investe sempre più anche le istituzioni formative e la Chiesa nel suo aspetto istituzionale”.

È una fotografia tratta dal Documento Preparatorio alla XV Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, che si terrà nell’ottobre del 2018.

Ci accorgiamo sempre più di come la politica è attraversata da due realtà ambivalenti: il multiloquio di chi si improvvisa politico, dimenticando che la polis fa riferimento alla città, al tutto; e il silenzio imbarazzante di chi, deluso, non vuol più sentire parlare di questa politica.

Da una parte il molto parlare (che rasenta il turpiloquio), producendo una frammentazione sociale e politica; e, d’altra parte, l’allontanamento del paese reale, che la Chiesa ben conosce, dal mondo della politica.

Sembra vero che dopo il tempo del complesso di Edipo (uccisione del padre) oggi l’uomo vive il complesso di Telemaco, figlio di Ulisse (l’attesa del ritorno del padre). Da più parti si chiedono veri modelli educativi, uomini e donne che sappiano ispirare pensieri, grandi ideali; si chiedono e si cercano profeti e non gente che gestisce le pozzanghere o, peggio, che in esse ci sguazza.

 [fusion_builder_container hundred_percent=”yes” overflow=”visible”][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”no” center_content=”no” min_height=”none”][…] Dov’è la coerenza e la dignità proprie di veri cristiani? dov’è il senso di responsabilità verso la propria e verso l’altrui professione cattolica? dov’è l’amore alla Chiesa?

[…] Vengono alle labbra le parole di Gesù: «Inimici hominis domestici eius», i nemici dell’uomo saranno i suoi di casa! (cf. Matth. 10, 36) (Paolo VI, Udienza 18.9.1968)

 

Una preghiera a Maria, donna del sabato santo.

Ci affidiamo, per rimanere oranti, ad una bella preghiera di Mons. Tonino Bello dedicata a Maria, donna del Sabato Santo:

Santa Maria, donna del Sabato santo, estuario dolcissimo nel quale almeno per un giorno si è raccolta la fede di tutta la Chiesa, tu sei l’ultimo punto di contatto col cielo che ha preservato la terra dal tragico blackout della grazia. Guidaci per mano alle soglie della luce, di cui la Pasqua è la sorgente suprema.

Stabilizza nel nostro spirito la dolcezza fugace delle memorie, perché nei frammenti del passato possiamo ritrovare la parte migliore di noi stessi.

 

E ridestaci nel cuore, attraverso i segnali del futuro, una intensa nostalgia di rinnovamento, che si traduca in fiducioso impegno a camminare nella storia.

Santa Maria, donna del Sabato santo, aiutaci a capire che, in fondo, tutta la vita, sospesa com’è tra le brume del venerdì e le attese della domenica di Risurrezione, si rassomiglia tanto a quel giorno. È il giorno della speranza, in cui si fa il bucato dei lini intrisi di lacrime e di sangue, e li si asciuga al sole di primavera perché diventino tovaglie di altare.

 

Ripetici, insomma, che non c’è croce che non abbia le sue deposizioni. Non c’è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c’è peccato che non trovi redenzione. Non c’è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell’alleluia pasquale.

 

Santa Maria, donna del Sabato santo, raccontaci come, sul crepuscolo di quel giorno, ti sei preparata all’incontro col tuo figlio Risorto. 

Quale tunica hai indossato sulle spalle? Quali sandali hai messo ai piedi per correre più veloce sull’erba? Come ti sei annodata sul capo i lunghi capelli di nazarena? Quali parole d’amore ti andavi ripassando segretamente, per dirgliele tutto d’un fiato non appena ti fosse apparso dinanzi?

Madre dolcissima, prepara anche noi all’appuntamento con lui.

Destaci l’impazienza del suo domenicale ritorno. Adornaci di vesti nuziali. Per ingannare il tempo, mettiti accanto a noi e facciamo le prove dei canti.

Perché qui le ore non passano mai.

 

E per trascorrere le nostre ore, nella Parasceve, vigilia del sabato solenne di Pasqua, mentre già splendono le luci del sabato, esercitiamoci nella speranza del silenzio, che non divenga il silenzio della speranza, mentre ancora ascoltiamo Papa Benedetto:

Questo è il mistero del Sabato Santo!

Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione.

 

Vi benedico
† Giuseppe, Vescovo

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