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Omelia del Vescovo Giuseppe Giudice in occasione della Solennità di San Prisco 2022

Cattedrale di San Prisco Martedì, 9 maggio 2022 Sorelle e fratelli, carissimi presbiteri, signor Sindaco, Autorità, mi rivolgo anche a quelli che attraverso i mezzi della comunicazione sono in comunione con noi per partecipare del dono spirituale di questa celebrazione.…

Cattedrale di San Prisco
Martedì, 9 maggio 2022

Sorelle e fratelli,
carissimi presbiteri,
signor Sindaco,
Autorità,
mi rivolgo anche a quelli che attraverso i mezzi della comunicazione sono in comunione con noi per partecipare del dono spirituale di questa celebrazione.
Abbiamo ascoltato Gesù, che manda i discepoli: li manda «a due a due» (Lc 10, 1), in comunione – oggi diremmo “in cammino sinodale”, sperando di non abusare di questa parola! –li manda «come agnelli in mezzo ai lupi» (Ivi, 3), forti della Parola del Signore: «Amatevi come io vi ho amato» (cf. Gv 13, 34). Si accorgono che il mondo, invece, è armato. Gli uomini sono armati. E allora la Chiesa, sorelle e fratelli, nel tempo vivrà sempre questo duplice aspetto: va come una pellegrina, come una povera a portare l’annuncio della pace, del Vangelo ma il contesto è sempre più difficile. Per questo, san Prisco, stamattina, quasi consegnandoci la pagina del Vangelo di Luca, “del figlio prodigo” o, se volete, del “Padre misericordioso” (Lc 15, 11-32), ci invita a compiere tre “processioni”.

Egli, primo vescovo, uomo di Dio, Egli che sicuramente ha letto anche la parola di Paolo: «Il mio giudice è il Signore. A me non interessa il giudizio degli uomini» (cf. 1 Cor 4, 3-4), e ci invita, Prisco, che cammina innanzi a noi, primo vescovo, primo testimone, uomo di Dio che ha sparso il Vangelo in questa terra – e noi ne raccogliamo i frutti – ci invita a compiere tre “processioni”.
La più difficile, che chiamerei la “processione della speranza”: non bisogna andare da nessuna parte, ma bisogna scendere dentro di noi: «Rientrò in se stesso» (Lc 15, 17). Perché la chiamo “processione della speranza”? Perché, sorelle e fratelli, dobbiamo scendere dentro di noi, nei bassifondi della nostra vita, nei vicoli della nostra esistenza, non tanto per mettere ordine, per pulire – quella è opera dello Spirito – ma semplicemente per recuperare il grande dono della vita. Perché nel momento in cui perdiamo in umanità non possiamo progredire neanche nella spiritualità.
Com’è difficile questo pellegrinaggio dentro di noi, questa processione alle radici antropologiche di ognuno di noi, a riscoprire il grande dono che il Signore ci ha fatto dandoci la vita!

Nel bellissimo messaggio che il Santo Padre Francesco ci ha mandato per la 59° Giornata di preghiera per le vocazioni quasi allarga – per così dire – il concetto di vocazione non solo all’essere preti, eremiti, religiose, missionari, cristiani; c’è una prima vocazione: la chiamata alla vita. E forse, sulla vita, oggi noi siamo in difficoltà: una vita bistrattata, una vita calpestata, una vita non amata, una vita bombardata, una vita che certe volte non è vita! Scendere dentro di noi. Non abbiamo bisogno di “luminarie” per scendere dentro di noi! Abbiamo bisogno della luce di Dio che brilla nella coscienza di ogni uomo. Com’è difficile questo pellegrinaggio, perché è più facile andare di qua e di là a cogliere le cose che non vanno e a lasciare dentro di noi ciò che sta producendo “metastasi”! Perciò dico che è difficile questa prima processione. Ma la chiamo “processione della speranza”, perché se riprendiamo la speranza nella vita, allora ricomprendiamo il mistero di ognuno di noi, di noi che siamo mistero a noi stessi. Ognuno di noi. Ma dentro di noi, se scaviamo, se guardiamo con attenzione, c’è una firma: è la firma di Dio, perché siamo immagine e somiglianza Sua (cf. Gen 1, 27).

Compiamola, questa prima processione, a cominciare da me. Scendiamo nei meandri, scendiamo nel tunnel, scendiamo fino in fondo e risaliamo con un canto alla vita.
La seconda processione è quella più urgente: la chiamerei la “processione della fede”.

È urgente, perché il figlio prodigo «si alzò e andò da suo padre» (Lc 15, 20): dobbiamo ritornare da Dio, perché se rimaniamo soltanto a guardare dentro di noi, possiamo essere bravi sociologi, possiamo fare tante cose – certamente! È la prima base, è il fondamento per costruire la pace –, ma noi siamo credenti! Il nostro pellegrinaggio è cercare Dio – “quærere Deum” – una ricerca di Dio: «Mi alzerò e andrò da mio padre» (Ivi, 18). Cercare Dio, sorelle e fratelli, non è semplice, non è facile, però sappiamo che possiamo cercarLo perché è Lui che ci cerca.
Andare a Dio, ritornare a Dio. Una società che ha perso Dio perde anche l’uomo. Quando si appanna il Cielo si appanna anche la terra. E ci può capitare, sorelle e fratelli, di vivere una vita senza fede o di sbagliare sul concetto di Dio. Guai a sbagliare, perché se Dio è uno che mi castiga, se Dio è un terribile, se Dio è uno che fa guerra, se sbaglio sul concetto di Dio, sbaglio tutta la mia vita. «Dio è amore» (1 Gv 4, 8 e 16), Dio è Padre ed è un Padre che aspetta sempre ed è un Padre con le braccia aperte.

È urgente questa processione! Se la prima è difficile, la seconda è urgente, perché dobbiamo recuperare Dio, l’immagine di Dio, e dovremmo chiamare dei bravi artisti per ripulire le tante “icone di Dio” che sono così sporcate e così deturpate da immagini, da sovrastrutture, da realtà che non hanno niente a vedere con Dio. È urgente questo cammino. È urgentissimo, sorelle e fratelli! È urgente come Chiesa. Non dimentichiamo quello che ci ha detto Gesù: «Nessuno può venire a me, se il Padre non lo attira» (Gv 6, 44): non è un cammino che possiamo fare con i nostri piedi; non è un cammino di volontà – un “volontarismo” –, uno studio, un po’ di catechismo in più; è un arrendersi all’amore di Dio: «Mi alzerò e andrò da mio padre» (Lc 15, 18).
E se Dio è Padre, noi siamo tutti fratelli, e la guerra è un imbroglio. È un imbroglio per motivi politici, per motivi economici, per altri motivi, ma la guerra non è da Dio. E gli uomini di Dio non vogliono la guerra, anche quando si devono difendere o devono difendere le nostre città.

Difficile il primo pellegrinaggio, la prima processione, quella della speranza; urgente quella della fede, che non si confonde con qualche “ninnolo” religioso! La fede è altro. È la fede di Abramo.
E poi c’è la terza processione, la più coraggiosa: è quella “della carità”. È verso il figlio o il fratello che è indignato. Quanti fratelli sono indignati con noi per tanti motivi, e tante volte nemmeno lo sappiamo! Sono fuori e non vogliono entrare. Com’è bello questo Dio che esce: «uscì a supplicarlo» (Ivi, 28). Dio, il Padre, che supplica il figlio. Chi è padre lo sa: quante volte –chi è sacerdote anche lo sa, e lo sa anche il vescovo – dobbiamo supplicare, quasi aiutare un fratello perché possa entrare nella comunione, perché è indignato, perché non ha capito ciò che il Padre gli dirà: «Ciò che è mio, è tuo» (Ivi, 31). È difficile, il cammino della speranza; è urgente, quello della fede, e coraggioso, il cammino della carità, perché se non amiamo il fratello che vediamo, come si può amare Dio che non si vede? (cf. 1 Gv 4, 20). Non vi ho detto niente di nuovo: semplicemente le tre virtù teologali, le tre “processioni”. Poi faremo anche le altre, quando verrà il momento. Ma adesso dobbiamo camminare nella speranza; dobbiamo camminare nella fede; dobbiamo camminare nella carità. E – siamo nel mese di maggio – Maria, la “speranzosa”, la gioiosa, l’ardimentosa – perché ha coraggio! – ci precede e ci accompagna e ci sostiene. Quante processioni ha fatto Maria: verso la casa di Elisabetta, gravida verso Betlemme, e poi di corsa in Egitto; e poi deve tornare; e poi a Gerusalemme, e poi lungo la strada, per cercare di capire che cosa si dice di questo Figlio; e poi alla Croce, dove rimane ferma; e poi la processione verso la sala alta, dove recupera i poveri, i poveri di fede che siamo noi, che ci siamo smarriti lungo la via della Croce. E, sulle note del Magnificat, ci invita a fare festa, ci invita a rallegrarsi.

Ecco, sorelle e fratelli: recuperando il dono della vita, recuperando la fede, recuperando la carità, forse possiamo cominciare a fare festa. Forse, perché le nostre feste sono tutte interrotte. Non le feste religiose, ma le “feste della vita”. Interrotte dalle tragedie, interrotte dai drammi, interrotte dai lutti, interrotte dalle morti, dalle divisioni. Viviamo tutte “feste interrotte”, e dobbiamo riprenderle, rallegrarci, perché la Pasqua ormai abita la nostra storia e l’unico canto che deve girare per le nostre strade è il canto dell’Alleluia, è il canto del Risorto, il canto dei risorti. Insieme a Lei, “Regina Cœli”, “lætare”! Alleluia!

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