Come fiammella di cero
con pazienza resisto mentre
mi flagella il mistero
(Luigi Commissari)

 

Carissimi Presbiteri,
Diaconi, Religiosi e Religiose, Santo popolo di Dio,

Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto.
Sì, Amen! (Ap 1, 7).

Sì, Amen, viene e, fasciati dalla sua presenza percepita con gli occhi della fede, entriamo stamattina nel Mistero della Pasqua attraverso il dono fluente e profumato dell’olio che, segno di Cristo, oggi è il protagonista di questa singolare celebrazione crismale che, concludendo il tempo quaresimale, è soglia verso i tre giorni.

Essa, radunandoci nella Chiesa Madre, ha il compito primario, ma non unico, di riannodare il presbiterio al suo Vescovo; di riportarci stupiti all’alba della vocazione; di risignificare il gesto delle mani poste nelle mani del Vescovo; di ravvivare il fuoco sotto la cenere, affinché la luce e il calore che si irradiano da questo centro eucaristico raggiungano il cuore di ogni membro della Chiesa e, per il suo tramite, il cuore del mondo, che sempre attende la Pasqua.

Siamo qui, convocati nella stanza alta e addobbata, provenienti forse dai sentieri del prodigo, dalle terre della dissomiglianza, dal deserto delle relazioni, dalla terra dell’esodo e del nostro peccato, dalle brume della solitudine e del dolore; siamo qui e sappiamo, per un dono di grazia, che il Padre ci attende per gettarci le braccia al collo, anzi esce fuori e ci cerca e per noi, sporchi di fango, fa imbandire la tavola festiva della comunione ritrovata, da Lui mai abbandonata, dopo averci rivestiti con l’abito della festa.

Siamo qui, con le nostre attese e le nostre domande; con le nostre paure e i nostri sogni; siamo qui, con le nostre stanchezze e gli slanci della nostra generosità.

Siamo qui, oggi, nella nostra Cattedrale, il nostro Duomo, la nostra Casa, DOMUS, ed Egli qui sempre ci aspetta per condurci, ancora una volta, al Cenacolo della fraternità e della carità, alla mensa del pane e del vino, alla sorgente dell’acqua che disseta e purifica per ri-accogliere, dalle sue mani trafitte, la stola del sacrificio e la dalmatica del servizio, segni della nostra gioia sacerdotale.

Siamo qui, nostra storia e geografia, con gli occhi fissi su di Lui, con le mani consacrate per Lui, con la nostra vita consegnata a Lui, pronti a ricevere il dono degli Oli per ungere, consacrare e profumare nuovamente la nostra vita e la vita del nostro popolo affidatoci nel ministero per essere come olivi verdeggianti nella casa di Dio (cfr. sal. 52,10).

In questa celebrazione, unta di mistero, accogliamo gli Oli con fede e grande rispetto e con senso di trepidante responsabilità: il crisma che ci riporta al profumo del Giovedì Santo; l’olio degli infermi che ci richiama l’acidità e il fiele del Venerdì Santo e della sofferenza; l’olio dei catecumeni che ci fa pregustare la bellezza del Sabato Santo quando la Chiesa, ricca di carismi e ministeri, nasce e rinasce nella grande Veglia. Essa è la Madre di tutte le veglie, l’unica che esprime la Chiesa nella sua totalità e, alla luce del Cero pasquale, quest’anno preparato dai fratelli detenuti, nei segni del fuoco, della parola, dell’acqua e del pane, la Chiesa ancora è, si edifica, esiste, celebra la sua Pasqua ed esce, per i vicoli del mondo, per cantare l’Alleluja. Nella densa celebrazione dei tre giorni, cuore vivo dell’Anno Liturgico, la Chiesa patisce e passa, ascolta e canta, e per questo esulta quale madre che sempre genera alla vita.

Celebrare il triduo pasquale con quella solennità che le è propria, e che comporta impegno e una certa fatica, è come fare il punto sulla propria capacità di penetrare il Mistero di Cristo in tutta la sua ricchezza e profondità. Le celebrazioni del triduo, infatti, ci rammentano le leggi fondamentali della vita naturale e soprannaturale: passare continuamente accettando di patire la trasformazione di ogni nostra notte in aurora, di donare la nostra vita come pane di servizio e di amore. Riecheggia così la parola del profeta: Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?. La sentinella risponde: Viene il mattino, poi anche la notte, se volete domandare, domandate, convertitevi, venite! (Is 21, 11-12).

Celebrare con solennità ed intimo stupore il Triduo pasquale, quasi a voler toccare il mistero grande di questi giorni, non ci fa chiudere gli occhi ma ci aiuta ad armonizzare, con sapienza e sobrietà, il grande Mistero della Settimana Maggiore con la variegata ricchezza dei riti della pietà popolare, secondo il saggio pensiero del card. Michele Pellegrino: “Bisogna tener conto della religiosità popolare in quanto è collegata particolarmente al mondo dei poveri… e non si può andare ai poveri con una coscienza troppo ricca di consapevolezza, poiché a tradizioni povere corrispondono gesti poveri ai quali occorre dare senso e accoglienza” (cfr. M. Pellegrino, San Gregorio Magno, console di Dio).

E, citando sant’Ambrogio, ripete che per dare senso e accoglienza “devo dunque nello stesso tempo apprendere e insegnare, non avendo avuto prima il tempo di imparare”.

Armonizzare, certo; pazientare, certo; purificare, certo; ma, nello stesso tempo, come Chiesa prendere le distanze con coraggio da tutto ciò che offusca e inquina la pietà popolare e, in ultimo, la fede.

Pasqua è sempre patire e passare, ma solo e soltanto per abbellire, facendo risaltare la lucentezza del mistero.

Apprendendo ed insegnando, sapendo che “quaggiù si va di inizio in inizio fino all’inizio senza fine” (S. Gregorio di Nissa), in questo Giovedì Santo, denso di mistero, ci chiediamo: noi, presbiteri, chi siamo?

Siamo gente di Pasqua, custoditi dalla Domenica; ministri del Triduo Sacro; cultori dei tre giorni affinché tutti i giorni, con il dono degli Oli, siano raggiunti e santificati dal profumo di Cristo, che è il giorno che non muore, Dies Domini.

Entriamo così, forse un po’ affaticati e distratti, nel mistero dei tre giorni per essere con Lui alla Cena dell’amore crocifisso, con Lui nel silenzio del sabato, con Lui all’Alba del primo giorno e diventare, in Lui, i servi del Giovedì Santo; gli artigiani della croce; i custodi del Sabato Santo e finalmente, i cantori dell’alleluja, sempre protesi verso quella Domenica che non tramonta, riverbero della luce pasquale.

Servi del Giovedì Santo.
Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i Sacramenti. Tu proponi loro come modello il Cristo: così ci fa ripetere il prefazio di questa santa e solenne messa, quasi a voler tratteggiare la nostra identità più vera.

Artigiani della croce.
Tu ci chiedi, o Signore, di portarla dietro di te; di accoglierla, quando tornando dai campi come Simone di Cirene, ti incrociamo e siamo costretti, come servi inutili, ad entrare nel fiume della redenzione; Tu vuoi che rimaniamo accanto, senza fuggire e non da lontano, quando si fa buio su tutta la terra e la nostra gente ci chiede il perché del dolore e della sofferenza.

Noi non siamo gli esperti della croce, ma sappiamo che nel tuo campo il lavoratore più solerte è colui che porta la croce con te, imparando a sostenerla per amore.

Custodi del Sabato Santo.
La cena ormai è stata consumata; la tragedia archiviata ed ora il silenzio avvolge ogni cosa, mentre ognuno ritorna alle sue cose. In quest’ora, Tu ci chiedi di essere per la nostra gente i custodi del Sabato Santo, perché tutta la nostra vita è un lungo sabato santo. Tu ci chiedi di alimentare la fiaccola della speranza, di ripetere sotto voce che Pasqua verrà, tornerà il sole, sarà ancora primavera, che Egli risorgerà e ci incontrerà nuovamente, anche se, segnati dalle lacrime, lo scambieremo per il giardiniere. Mistero e bellezza del sabato santo, di cui siamo chiamati ad essere custodi, in un tempo a-liturgico, senza liturgia, ma attenti ad una liturgia del cuore, poveri e sobri, attingendo alla spiritualità del Sabato Santo, portandoci Maria a casa e, accogliendola tra le cose più preziose, come il discepolo amato.

 

Cantori dell’alleluja.
Lei, Santa Maria in Sabato, ci insegnerà come si attende l’aurora e come si crede pur senza vedere. Lei ci aiuterà a fare sintesi del mistero di fede mettendo insieme la cena eucaristica, la notte fonda dell’agonia, la passione e la morte di Gesù, la notte gelida del sepolcro, la notte luminosa della risurrezione e, come Madre, ci insegnerà a metterci in ginocchio, a curvare la fronte, in un ascolto personale, intimo e silenzioso per abilitarci a cantare con la vita l’annuncio pasquale.

Ecco, carissimi fratelli presbiteri, chi siamo e chi vogliamo sempre più diventare e così, profumati di olio, stampati nell’eucarestia, forgiati nel grazie e nel gratuito, sentiremo sempre più la ricchezza del dono presbiterale posto quel giorno nelle nostre povere mani.

Così voi ci desiderate, fratelli e sorelle del laicato, e per questo sempre vi invitiamo a pregare e a sostenere le nostre mani alzate nella preghiera sul monte, come Aronne e Cur facevano con Mosè (cfr. Es. 17,12-16) per vincere la battaglia della fede.

Scrive Julien Green: “Se io dovessi partire questa sera e mi si chiedesse che cosa mi commuove di più al mondo, direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini” (cfr. J. Green, Journal, Vol V, Paris 1951).

Ecco dove approda il triduo pasquale: sentire questa Pasqua che sfiora il cuore dell’uomo per farlo passare da cuore di pietra a cuore di carne. Sentire che il nostro cuore come le porte degli ebrei è segnato dal sangue dell’Agnello e lo sterminatore, trovandoci raccolti in casa, passerà oltre.

E sia veramente questa la nostra Pasqua, l’augurio che ci scambiamo vicendevolmente: sentire il passaggio di Dio nel nostro cuore e nel cuore degli uomini, in modo che vivendo in comunione nell’arca che è la Chiesa, anche se fuori diluvia, come Noè attendere altri giorni e far uscire di nuovo la colomba dall’arca, con la certezza che tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco una tenera foglia di ulivo (cf. Gn 8, 1-11).
Amen.

+ Giuseppe, vescovo