L’editoriale del Vescovo pubblicato oggi sull’edizione salernitana del quotidiano Il Mattino

 

Domani, per dirla con De Filippo in Natale in Casa Cupiello sarà quel Santo Giorno ed il mondo, volente o nolente, si fermerà per un attimo accanto a quella grotta, inizio di tutto.

Domani sarà Natale; ma oggi è il giorno della vigilia e noi, anche se post moderni e post cristiani, siamo impastati nello spirito del Sabato del villaggio, di leopardiana memoria.

Questa giornata, come tutte le altre, è formata da ventiquattro ore; noi la percepiamo in modo diverso perché essa non sfocia in una notte, ma sboccia nell’aurora e in un giorno solenne.

Essa è una notte di luce trapunta di stelle, secondo la bella lezione di Sant’Alfonso Maria de Liguori.

Incapsulati nel traffico, e traffico nel cuore, avendo come sottofondo i rumori dei clacson e sognando antiche ciaramelle, anche noi vorremmo raggiungere Betlemme, il paese del primo Natale.

La radio amica, che ci fa compagnia lungo la strada, ci snocciola come una litania le ultime notizie fresche di giornata.

Un elenco che a tratti agghiaccia il cuore, spaziando dalla nostra Italia a diverse parti del mondo, dove la luce di Betlemme sembra non essere mai giunta o essersi quasi spenta.

Che significa per noi, in questo contesto, raggiungere Betlemme?

Può essere il Natale solo un lontano paese dell’anima, dove ci rintaniamo per evitare l’urto contro un mondo che urla e impazzisce e per cercare di guarire le nostre ferite?

Può essere un ricordo il Natale, nella dolce memoria dell’infanzia e dell’odore buono di casa, dove tutto si fa nostalgia?

Ma questa vigilia così densa di attesa, mentre si torna a casa per un po’ di pace, ci rimette nella fila delle attese grandi.

Attendere, voce del verbo sperare: dinanzi ad una vita che si sbriciola tra le dita; nella notte in una sala bianca dopo l’ennesimo incidente; il risultato di un esame, la crescita dei figli e una nuova saggezza nella vecchiaia; quel lavoro che non arriva mai e la pensione che sembra sfuggire.

Attendere una politica meno pacchiana e più attenta al bene di ognuno e di tutti e di non vedere più cumuli di immondizia in una civiltà, consumata dal consumismo, che produce spazzatura. Che il giardino ritorni giardino e il fratello non sia un fardello.

Ed è così, ingolfato il cuore, che si cammina verso Betlemme, chiedendo continuamente dov’è e, quasi affogandosi, in uno shopping convulsivo che non distingue più tra regali e doni, tutto omologando.

Eppure è sempre vigilia, di una nascita che si fa rinascita riappropriandoci del gusto della vita dal sapore natalizio.

Domani sarà Natale, mentre oggi impariamo sulla nostra pelle come si coniuga il verbo sperare. Nonostante il caos, il traffico, le cattive notizie, i drammi, Natale è il mistero dell’Eterno che entra nel tempo; l’Infinito che si fa finito; il Cielo in una stalla e la tenerezza di Dio che abbraccia l’uomo.

Come è povera una nazione che ha paura di un bambino in più, diceva Santa Teresa di Calcutta.

Trafelati, stiamo raggiungendo Betlemme ed ecco le sue luci, la festa; ecco il dono del presepe: un Bambino è nato per noi.

E questo Bambino, ci piaccia o no, spacca e orienta la storia, ridando fiato ad un Europa stanca e invecchiata.

Ma nel paese del Natale, spaesati, ci può capitare l’esperienza descritta in una lirica di Giorgio Caproni:

M’ero sperso.

Annaspavo.

Cercavo uno sfogo.

Chiesi a uno.

Non sono/

mi rispose/

del luogo.

O ci possiamo sorprendere, complice lo stupore natalizio che cura anche le ferite rendendo bella la vita, con le parole di Soren Kierkeegard: Gesù, ci sia concesso di diventare tuoi contemporanei; vederti come e dove sei passato sulla terra, e non nella deformazione di un ricordo vuoto.

+ Giuseppe Giudice, Vescovo