In Paolo VI ho visto amare e vivere la Chiesa; l’ho vista nei suoi occhi verginali, nelle rughe di un contemplativo consumato dall’Amore. E non mi vergogno di averlo pianto, quella sera del 6 agosto, e oggi di pregarlo, affinché mi aiuti ad amare sempre più, fino alla fine, la Chiesa, e questa Chiesa.

di Mons. Giuseppe Giudice*

Giovanni Paolo I, affacciandosi alla loggia centrale della Basilica di San Pietro il giorno dopo l’elezione al soglio pontificio, il 27 agosto 1978, ebbe a dire di Paolo VI: “D’altra parte in 15 anni di pontificato questo Papa, non solo a me, ma a tutto il mondo ha mostrato come si ama, come si serve e come si lavora e si patisce per la Chiesa di Cristo”.

Penso che lo Spirito non potesse suggerire al novello Papa espressione più sintetica e pregnante: sì, Paolo VI, ha amato, ha servito, ha lavorato e ha patito per la Chiesa di Cristo. E la Chiesa, se vogliamo comprendere la sua personalità, deve essere la cifra di lettura della sua intensa vita e del suo profetico pontificato. L’amore alla Chiesa, alla Chiesa che è sua cioè di Gesù Cristo, Ecclesiam suam, e alla quale con parole di innamorato, nel tramonto della vita, ama ripetere: …potrei dire che sempre l’ho amata e per essa, e non per altro, mi pare di aver vissuto.

Mi pare, scrive Paolo VI, nello stupendo Pensiero alla morte, non volendo anticipare con grande umiltà il giudizio della storia, ma riconoscendo semplicemente, dinanzi al suo Signore, l’anelito e la trama di tutta la sua vita. Un amore concreto, fatto di passione, umanità, spiritualità, teologia, liturgia, scrittura e tradizione, per quella Chiesa ricevuta nel Battesimo come un dono, e portata a maturazione nei sacramenti e nel ministero. Chiesa che non ci appartiene, sempre Ecclesiam suam, ma nella quale siamo inseriti come il tralcio nella vite, e senza la quale, per il credente non c’è vita.

Ecclesiam suam, primo documento stupendo, programmatico e rivelativo, che non vuole turbare il cammino del Concilio, ma semplicemente orientarlo; documento che, in modo profetico porta la stessa data della morte del Papa (06-08-1964; 06-08-1978), quasi a dire che lo Spirito trasfigura la vita della Chiesa e il volto dei testimoni ecclesiali.

Cristo è e rimane il cuore giovane ed incandescente della Chiesa, che è sua, ed è a noi donata nel segno del pane e del vino, che fatti dalla Chiesa fanno la Chiesa, Mysterium fidei. Una Chiesa, non dirimpettaia del mondo, non arroccata su antichi speroni, ma presente come respiro di eternità nel groviglio delle città e dei popoli, mandata come lievito che fa crescere, luce per i popoli, per orientare il progresso dei figli, Populorum progressio.

E nella Chiesa, che è santa, come un dono sempre nuovo ed un mistero posto in vasi di creta, la bellezza del sacerdozio, che si esprime nell’offerta totale: Sacerdotalis caelibatus. La Chiesa è carne e corpo di Cristo, suo sangue, suo cuore che batte all’unisono con il cuore di Cristo, ed è qui che il canto del pastore si fa tenerezza per ogni vita, per la vita di tutti, per tutta la vita, nascente e senescente, con l’Enciclica più sofferta e contrastata, ma quanto attesa ed amata: Humanae Vitae.

Sì, in nomine Domini, Paolo VI, nel deserto culturale ed antropologico, non teme, pur in mezzo alla tempesta, di cantare la vita: “Questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e gloria: la vita, la vita dell’uomo!”.

E con la vita, e nello spazio della vita, le cose nuove, perché niente è nuovo senza la vita; la Chiesa lo sa e, firma in Traditione, scrive pagine nuove con la Octogenisima adveniens.

La Chiesa lo sa, perché è mandata ad ogni uomo, a tutti gli uomini e a tutto l’uomo, e va pellegrina, mandata da Lui, sapendo di dover consegnare una Lettera d’amore, capace di svelare il senso della vita, della morte e dell’oltre; va a tutti i popoli, in tutti i continenti, pur nelle regioni più remote, semplicemente per annunciare e gridare: Gesù Cristo!

Nei grandi viaggi apostolici, Paolo VI ha voluto imitare il pellegrinaggio di Maria, Colei che porta Cristo e porta a Cristo, e nella Marialis cultus ha aiutato la Chiesa tutta a rifondare biblicamente e teologicamente il culto della Vergine, ridando a Lei, Madre di Dio e della Chiesa, il giusto posto nel cammino di ogni uomo. Ma per Paolo VI, la Chiesa anche se segnata dalle rughe e dalle lacrime, è sempre una Chiesa gioiosa, alleluiatica. Come ci farebbe bene, in questo tempo di passioni tristi, rileggere la Gaudete in Domino, unico documento di un Papa sul tema della gioia, un inno alla gioia per gente sazia e disperata.

E non è forse la gioia, la colonna sonora del pontificato di Francesco?

Sì, la gioia di annunciare il Risorto, Evangelii gaudium, in un mondo che lo ha scartato. Per questo motivo, non si può essere evangelizzatori sereni ed incisivi, se non siamo stati capaci di leggere, approfondire e pregare in ginocchio l’Evangelii nuntiandi, che rimane ancora oggi la magna charta, dopo il Concilio, per la evangelizzazione di questo mondo, amato dal Signore.

Ho voluto così, semplicemente, rileggere la vita di un profeta attraverso i suoi gesti e alcuni suoi documenti; senza dimenticare la Lettera agli uomini delle Brigate rosse, dove in ginocchio alberga il suo cuore e lo stile del suo essere Chiesa e Pastore.

Sono semplici appunti che devono invogliare a leggere la vita inesauribile di un Santo, ritmata sui passi del Maestro.

In Paolo VI ho visto amare e vivere la Chiesa; l’ho vista nei suoi occhi verginali, nelle rughe di un contemplativo consumato dall’Amore. E non mi vergogno di averlo pianto, quella sera del 6 agosto, e oggi di pregarlo, affinché mi aiuti ad amare sempre più, fino alla fine, la Chiesa, e questa Chiesa.


L’Angelus che Montini non pronuncio (Osservatore Romano)

6 agosto 1978

Fratelli e Figli carissimi!

La Trasfigurazione del Signore, ricordata dalla liturgia nell’odierna solennità, getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra. Sulla cima del Tabor, Cristo disvela per qualche istante lo splendore della sua divinità, e si manifesta ai testimoni prescelti quale realmente egli è, il Figlio di Dio, «l’irradiazione della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza» (cfr. Ebrei 1, 3); ma fa vedere anche il trascendente destino della nostra natura umana, ch’egli ha assunto per salvarci, destinata anch’essa, perché redenta dal suo sacrificio d’amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita, alla «sorte dei santi nella luce» (Colossesi 1, 12).

Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo «partecipi della natura divina» (2 P i e t ro 1, 4). Una sorte incomparabile ci attende, se avremo fatto onore alla nostra vocazione cristiana: se saremo vissuti nella logica consequenzialità di parole e di comportamento, che gli impegni del nostro battesimo ci impongono. Il tempo corroborante delle vacanze sia a tutti propizio per riflettere più a fondo su queste stupende realtà della nostra fede. Ancora una volta auguriamo a voi tutti, qui presenti, e a quanti possono godere di una pausa ristoratrice in questo periodo di ferie, di trasformarle in occasione di maturazione spirituale.

Ma anche questa domenica non possiamo dimenticare quanti soffrono per le particolari condizioni in cui si trovano, né possono unirsi a chi invece gode il pur meritato riposo. Vogliamo dire: i disoccupati, che non riescono a provvedere alle crescenti necessità dei loro cari con un lavoro adeguato alla loro preparazione e capacità; gli affamati, la cui schiera aumenta giornalmente in proporzioni paurose; e tutti coloro, in generale, che stentano a trovare una sistemazione soddisfacente nella vita economica e sociale. Per tutte queste intenzioni si alzi fervorosa oggi la nostra preghiera mariana che stimoli altresì ciascuno di noi a propositi di fraterna solidarietà. Maria, Madre sollecita e premurosa, a tutti rivolga il suo sguardo e la sua protezione.