L’ultimo in ordine di tempo è il caso della nave Sea Watch 3, con 47 persone bloccate a bordo per circa due settimane di fronte a Siracusa in attesa che gli Stati europei trovassero un accordo sul collocamento dei migranti. Ma a chi spetta il dovere di accogliere? E c’è una responsabilità dell’Ue in tutto ciò? L’Unione europea – chiariscono i trattati – dispone di una “competenza concorrente” volta allo sviluppo di una “politica comune in materia di immigrazione”. Ma, nei fatti, l’ultima parola spetta ai governi degli Stati membri che in questi anni hanno sempre frenato rispetto a una reale convergenza in tale settore. Qualche chiarimento può essere utile, dato il diffondersi di notizie non sempre fondate e il continuo ripetersi – dinanzi ai flussi migratori – dell’interrogativo: perché l’Europa non si muove?

L’art. 78 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue) recita: “L’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento”. In materia, sia l’Ue che gli Stati membri possono adottare atti giuridicamente vincolanti nei rispettivi ambiti di competenza. Per semplificare: la Commissione e il Parlamento europeo hanno la prerogativa di formulare proposte di regolamentazione, ma sono gli Stati, in ultima istanza, ad avere la decisione finale sulle leggi che entreranno in vigore.

E, dunque, chi è chiamato ad occuparsi della redistribuzione dei migranti? Proprio i governi degli Stati membri, che periodicamente si ritrovano a Bruxelles nel Consiglio europeo e nel Consiglio dei ministri dell’Unione europea.

La Commissione europea, in realtà, in questi anni ha più e più volte sollecitato una revisione del regolamento di Dublino, che stabilisce “i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (rifusione)”. La volontà della Commissione Juncker era quella di istituire un meccanismo permanente di redistribuzione dei migranti tra i vari Stati membri dell’Unione, fondato su criteri oggettivi. Ma la proposta, che è passata all’esame del Parlamento e da questo fatta propria, non ha trovato seguito a causa della spaccatura in seno al Consiglio Ue che a settembre 2015 aveva votato a favore di un meccanismo temporaneo di redistribuzione obbligatoria dei migranti arrivati tra il 2015 e il 2017.

Quattro Stati si sono opposti (Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania) incorrendo, tra l’altro, in un deferimento da parte della Commissione europea alla Corte di Giustizia.

Da allora, la situazione è rimasta in una fase di stallo nonostante ulteriori tentativi operati dal Consiglio europeo nel 2018 con l’invito agli Stati membri affinché i migranti giunti in Europa siano “presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria”. Resta valido, dunque, il Trattato di Dublino – che è un trattato internazionale –, il quale stabilisce che i cittadini di Stati terzi che fuggono dal proprio Paese perché in guerra o perché perseguitati (per motivi di natura politica o religiosa) possono fare richiesta di asilo solo nel primo Paese membro dell’Unione europea in cui arrivano. E quel Paese dovrà fornire una prima accoglienza e al contempo avviare l’iter per l’eventuale riconoscimento della protezione internazionale.

Sono dunque gli Stati membri – e non l’Unione europea – a dover trovare un’intesa sulla ridistribuzione dei rifugiati che approdano in Europa. Nessun meccanismo automatico e obbligatorio è stato approntato dal Consiglio europeo che parla soltanto di ricollocazione su “base volontaria”.